Le polemiche per la tappa alla Città Vecchia risolte con un compromesso: la visita sarà in forma privata. La sosta al Muro del Pianto diventa di competenza dell’Autorità nazionale palestinese
Benché priva di valore politico, la visita del principe William in Israele, che comincia quest’oggi, può definirsi storica. È infatti la prima volta che un reale inglese mette ufficialmente piede nello Stato ebraico, e la «scappata» di Carlo il 30 settembre del 2016 per i funerali di Shimon Peres non era altro che l’ennesima conferma di un tabù. Che non riguarda il governo britannico e nemmeno il segno di una ostilità nazionale di fondo. E’ invece una sorta di resistenza della Corona, che ha radici complesse e che fino a oggi ha fatto sì che, malgrado la vocazione dei reali britannici a girare per il mondo, Israele sia rimasta in questi settant’anni esclusa dai loro circuiti.
È dunque comprensibile che l’arrivo del principe William sia salutato in tutto il Paese con trepidazione, coinvolgimento e immancabili polemiche. Soprattutto quando il passaggio previsto al Muro del Pianto è stato incluso nella parte di visita di competenza dell’Autorità Palestinese: se è vero che la Città Vecchia di Gerusalemme è stata conquistata da Israele nella Guerra dei Sei Giorni e non rientra nei confini del 1948, lo è altrettanto che quello è il luogo più ebraico che ci sia.
Il compromesso raggiunto è: nessun passaggio ufficiale in Città Vecchia— «solo» tappa privata.
Le ragioni di un’assenza
Perché la Corona del Regno Unito, che ha dominato per i quattro angoli del mondo e che il mondo ancora lo gira con quella familiarità che la storia e il potere le hanno concesso, non è ancora mai venuta in Israele? C’è qualcosa di profondo in questa assenza, c’è il segno di un’offesa storica. Gli inglesi sono stati infatti parte integrante nella matassa di avvenimenti che hanno segnato gli ultimi cento anni qui. Alla fine della Prima guerra mondiale, con il crollo dell’Impero Ottomano, la Palestina fu, insieme ad altri territori della regione, assegnata a un governo mandatario inglese che avrebbe dovuto semplicemente preparare il terreno per un riassetto politico stabile. Se questo governo (che potremmo anche chiamare occupazione) si era aperto con i migliori auspici per lo «yishuv», cioè la società ebraica in Palestina, perché nel novembre del 1917 la dichiarazione di Lord Balfour sanciva il diritto del popolo ebraico a un «focolare nazionale», vi è per contro una serie di tre Libri Bianchi che limitavano fortemente, per non dire bloccavano le quote di immigrazione ebraica dall’Europa —nel 1922, nel 1930 e soprattutto nel 1939, con la guerra e la persecuzione alle porte. Tutto ciò e tanto altro fa sì che per gli ebrei di Palestina gli inglesi, e la loro Corona, diventino ben presto il nemico, l’occupante. Lo sono, ad esempio, per il piccolo Amos Oz quando racconta della sua infanzia di «fanatico» anti-britannico in «Una pantera in Cantina». Contro gli inglesi combatte strenuamente il Palmach, la Resistenza Ebraica.
La fine del Mandato
E per una Corona che aveva saputo abbandonare tutte le sue immense colonie senza dover ingaggiare battaglia, senza andarsene da nemico giurato, il fatto di dover ammainare la Union Jack nel 1948, alla fine del Mandato, nei panni dell’occupante, del bersaglio di una resistenza armata strenua e del tutto inattesa, rappresentava un caso insolito, per non dire un indisponente unicum. Un po’ come era successo quasi due millenni prima ai Romani, che in quella sperduta regione si erano dovuti confrontare con un sacco di problemi e con una tenacia incomprensibile che andava dalla lotta armata al rifiuto di adorare l’imperatore, anche la Corona inglese era rimasta spiazzata dalla dura cervice ebraica. E forse, come spiegava il compianto Dan Segre, fra i maggiori esperti in proposito anche perché questa storia l’aveva vissuta in prima persona, la Corona sperava, forse era quasi sicura che sarebbe tornata presto a governare la Palestina. Non perché, come auspicava il fronte arabo, gli ebrei sarebbero finiti tutti a mare, ma per l’impossibilità di trovare un accordo fra le parti, per l’immancabile caos e l’emergenza che sarebbero sorti alla partenza degli inglesi. In altre parole, si intravedeva la prospettiva di una vittoria se non militare certo diplomatica da parte della Corona. Ma la storia è andata diversamente, e questo cammino di William in Israele — non a caso la nuova generazione di reali, non sua nonna e nemmeno suo padre — segna la fine di un annoso blocco fisico e mentale. ELENA LOEWENTHAL (La Stampa, 25 giugno 2018)