Il sepolcreto ebraico sotto il Palazzo degli Uffici di Taranto tornerà alla luce. E nell’attesa di riportare dove furono inumati 15 secoli fa gli scheletri rimossi durante gli scavi del 2006, quei resti umani troveranno dignitosa sepoltura, secondo le norme religiose ebraiche, e non resteranno insepolti nei depositi della Soprintendenza tarantina.
I resti del sepolcreto, che fu in uso dal IV secolo d.C. (almeno) fino al IX, quando Taranto, ad inizio X secolo, fu distrutta dai Saraceni (e fu a fine secolo riedificata dai Bizantini, ma solo nella ristretta cerchia dell’antica acropoli, trasformata quasi in isola), unica traccia ancora in contesto della presenza in Taranto della più antica colonia ebraica al mondo dopo la diaspora (questo almeno dice una tradizione ebraica risalente al Medioevo) saranno preservati, si provvederà ad una indagine archeologica più ampia e saranno poi resi visibili.
Nel 2006, nel corso di un sondaggio archeologico durante i lavori di ristrutturazione dell’antico edificio (la ostruzione iniziò a fine XVIII secolo), la Soprintendenza di Taranto rinvenne tre tombe (con scheletri ancora in situ) di V – VI secolo d.C. scavate nel banco di carparo e quasi sicuramente pertinenti ad un sepolcreto ebraico: lapidi ebraiche erano infatti state rinvenute a fine ‘700 e fine ‘800 nel corso dei lavori di sterro di una collina per la costruzione del palazzo prima, della Città Nuova di Taranto poi. Le richieste della Soprintendenza per una più ampia campagna di scavi rimasero inevase, anche perché il cantiere si bloccò per una controversia giudiziaria. In vista della sentenza del Consiglio di Stato che a giorni dovrebbe finalmente dirimere la questione, la vicenda del sepolcreto è tornata di attualità, col diretto coinvolgimento del Rabbinato italiano. Perché l’affaire tombe ebraiche non presenta solo aspetti archeologici e storici. Per la religione ebraica (per inciso, una delle confessioni che ha sottoscritto intese con la Repubblica Italiana, con previsione di tutela dei cimiteri e di tutti i beni “afferenti al patrimonio storico e artistico, culturale, ambientale e architettonico, archeologico, archivistico e librario dell’ebraismo italiano”) la traslazione di cadaveri è un sacrilegio; i resti umani spostati dalle loro tombe vanno riportati, se possibile, nel luogo di inumazione originario, e comunque non possono rimanere insepolti in un deposito, dove furono trasportati dopo i sondaggi del 2006. E’ una “scoperta” emersa nel corso di un recentissimo sopralluogo nell’area del palazzo interessata al sepolcreto. In seguito a colloqui intercorsi fra il Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e la soprintendente di Taranto, Barbara Davidde, è stata disposta una visita all’abbandonato cantiere del palazzo (alla quale chi scrive ha preso parte): accompagnati dalle archeologhe Laura Masiello e Stefania Montanaro, il Rabbino Chizkiya Kalmanowitz, del Comitato europeo per la protezione dei cimiteri ebraici ed il restauratore Amir Genach, reduci da impegnativi lavori di risistemazione delle catacombe ebraiche di Villa Torlonia, a Roma, hanno accertato lo stato dei luoghi, verificato la più che probabile presenza sotto il pavimento di altre sepolture ebraiche e richiesto un piano di scavi e sistemazione del sepolcreto. Una possibilità è creare un’area visibile di sepolcreto che consenta comunque la utilizzazione del corridoio e delle stanze adiacenti; area nella quale sarebbe possibile, peraltro, collocare le lapidi ebraiche conservate dalla Soprintendenza (altre sono al MArTA). Oltre all’indiscutibile valore storico-archeologico, ed al rispetto per la dignità dei resti umani e per le norme religiose ebraiche, la creazione di questa piccola ma significativa area cimiteriale visibile avrebbe un valore turistico non indifferente.
Secondo una tradizione medievale, dicevamo, Taranto sarebbe stata la prima città nel mondo ad ospitare dopo la “dispersione” una colonia ebraica; ben integrata; lo dimostra anche il rinvenimento nel sepolcreto in uso dal IV al IX secolo d.C. di lapidi bilingui (Greco ed Ebraico; poi Latino ed Ebraico) accanto a sepolture cristiane e tombe bizantine: i due cimiteri dovevano essere contigui. L’area fu abbandonata all’inizio del X secolo; quando a fine secolo Taranto viene ricostruita, la città si restringe nell’antica acropoli, quasi un’isola; la Giudecca è nel quartiere Turripenne, e la cultura ebraica è fiorente. Con gli Angiò, seconda metà del XIII secolo, iniziò una forte pressione su musulmani ed israeliti perché si convertissero. Nel 1492 i Re cattolici cacciano gli Ebrei dalla Spagna; molti si rifugiano nel Regno di Napoli, ma con la conquista spagnola inizia la fine. Nel 1541, per decreto di Carlo V, la definitiva cancellazione delle comunità ebraiche nel Mezzogiorno; chi non si converte, fugge. Della comunità ebraica tarantina, a differenza di altre pugliesi (Oria, Trani, e per tracce Manduria), si perderanno le tracce, fino a sparsi rinvenimenti e studi recenti (fondamentali quelli di Cesare Colafemmina). Il quartiere Turripenne, dove le tracce ebraiche erano comunque poco documentate, fu raso al suolo negli anni ’30 del ‘900, per il “risanamento” della Città Vecchia.
Ecco quindi che riprendere le ricerche nel Palazzo degli Uffici, e preservare e rendere visibile il sepolcreto ebraico, diventa fondamentale anche dal punto di vista storico ed archeologico. Senza trascurare la necessità di salvare quel che resta del cimitero, anche per provvedere, come ricorda Rav Kalmanowitz, alla sepoltura secondo le norme ebraiche di “quegli sfortunati il cui ultimo riposo è stato terribilmente disturbato”.