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    Libertà e liberazione. Pesach 5782

    Negli ultimi due anni gli ebrei sono usciti dall’Egitto nella solitudine della propria abitazione individuale. È questo il dato di fatto del Covid, quindi dell’obbedienza dovuta ad uno stato democratico che garantisce e tutela le tradizioni religiose delle minoranze (“la Legge dello Stato è Legge”). Perciò sono stati bloccati dai cosiddetti lockdown tutti gli spostamenti e di conseguenza le riunioni di famiglia. Nel corso di due anni consecutivi (2020/5780 – 2021/5781) questa interdizione è caduta in coincidenza con la pasqua ebraica, e ha escluso ogni possibilità di riunione per la cena della prime due sere. Fondamentale, come sa ogni ebreo, soprattutto la prima. Fuori della collettività non si esce d’obbligo e non esiste pienezza di adempimenti. Certo, qualcuno avrà trasgredito. Ma per sua scelta ha anche violato la regola primaria della tradizione ebraica per casi analoghi: la necessità di tutelare la propria salute e la propria vita fisica sospende ogni altro obbligo. La valenza simbolica di quanto è accaduto non può sfuggire. Per la prima volta nella storia un’epidemia locale si è immediatamente diffusa come pandemia globale. La malattia fu la sesta piaga inflitta agli egiziani. L’umanità si è forse trasformata in faraone di se stessa. Obbedisce a regole planetarie che impongono lavoro continuo e accumulazione di ricchezza, a prescindere da ragionevoli logiche di progresso e utilità. Il privilegio di alcuni è ottenuto in danno degli altri e del pianeta che è casa di tutti. La fine della servitù del popolo d’Israele segna il primo evento di liberazione narrato in forma potente, per le cronache del confronto futuro tra oppressori ed oppressi. Di sicuro la Torà non può essere interpretata con disinvoltura, e certo non è un manuale di contestazione. Però la lettura di qualche passo può essere utile anche come ammonimento. Cito dalla traduzione di Rav Dario Disegni z.l. “Il Faraone comandò…Voi non date più paglia al popolo per la preparazione dei mattoni come è avvenuto per l’addietro, ma essi stessi si procureranno la paglia… Sia il lavoro reso più gravoso agli uomini e siano obbligati ad eseguirlo cosicché non avranno più possibilità di seguire parole ingannatrici.” (Esodo, 5, 6-9). È gente pigra. Cercano pretesti, il loro padrone non può credere che davvero si riuniranno per offrire sacrifici nel deserto. Nella personalità di ogni donna e di ogni uomo che si riconosca nella tradizione ebraica il senso di questa necessità profonda di non tollerare l’ingiustizia implica un’opera continua di sovversione. Occorre rimuovere la maschera che la coscienza infelice della modernità e la falsa coscienza della nostra inedita collocazione sociale ci hanno imposto, fin dai tempi delle “emancipazioni”. Abbiamo forse sacrificato a nuove divinità. Ma l’ebreo benestante, felicemente e tranquillamente inserito nelle strutture del potere, non esiste. È un povero che si sente provvisorio nella propria eventuale ricchezza. La condizione ebraica implica qualcosa di più, in quanto dopo la liberazione è necessario un nuovo patto sociale. Il popolo uscito dall’Egitto accettò il patto, in piena consapevolezza. Nel Sinai vennero codificati dirittie doveri. Ribellarsi all’oppressione era stato giusto, poiché gli egiziani “istituirono sopra il popolo dei preposti ai lavori, che l’opprimevano con le loro angherie.” (Esodo, 1, 11). Gli ebrei dovranno ricordare per sempre che furono stranieri: “Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto.” (Deuteronomio, 10, 19). Ma troppo spesso Mosè era stato costretto ad ascoltare i lamenti di molti che si ostinavano a rimpiangere il tempo trascorso in Egitto, però con le pentole piene. E infatti l’Egitto segna la personalità profonda di ciascuno: “Era certamente per noi preferibile la schiavitù egiziana alla morte nel deserto”. Resta tuttora quella la vera casa di schiavitù dalla quale occorre uscire, spiegano i Maestri con un monito valido per l’umanità intera.

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