“Daglieli, daglieli. Se no chissà cosa succede”. Secondo la ricostruzione del questore di Roma Pietro Caruso, la mattina del 24 marzo 1944, questo fu l’ordine, oppure il suggerimento, che gli diede il ministro dell’Interno della Repubblica sociale italiana, Guido Buffarini Guidi.
Cosa era successo, cosa “poteva succedere” e chi sono le persone da dare? I fatti sono ben noti. Il pomeriggio del giorno precedente i partigiani comunisti avevano fatto saltare una bomba a via Rasella, uccidendo trentatré poliziotti tedeschi. Un’ora dopo l’attentato, il comandante della XIV armata tedesca, Eberhard Von Mackensen, aveva dato ordine a Herbert Kappler di uccidere dieci italiani per ogni tedesco, ordine ribadito dal feldmaresciallo Albert Kesselring a cui Kappler si era rivolto per avere conferma. E a questo punto le vicende si fanno estremamente complicate. Chi doveva uccidere fisicamente le vittime? E dove trovarle? Secondo Kappler, il comandante del reparto di polizia attaccato si era rifiutato di eseguire l’eccidio, ma stranamente lo stesso Kappler non si rivolse alle forze di polizia italiane, che già tante alcune volte avevano fucilato dei partigiani o antifascisti a Forte Bravetta. Per quanto riguarda le vittime, Kappler stilò la lista prendendo i cosiddetti “meritevoli di morte”, già rinchiusi nel braccio tedesco di Regina Coeli e dalla sua prigione personale di via Tasso. Ma ancora non bastavano, così si rivolse a Caruso, che “mercanteggiò”, dopo aver avuto il nulla osta da Buffarini Guidi, consegnando 50 vittime invece delle 80 richieste (il “daglieli, daglieli” citato).
Il pomeriggio del 24, 335 vittime venivano massacrate alle Fosse Ardeatine.
Tutto logico? Tutto coerente? L’applicazione della legge di guerra? Un ordine dall’alto a cui non si poteva non obbedire? Militari che, nonostante fossero devastati da conflitti interni, fecero solo il loro dovere? Probabilmente no.
Anche con le cinquanta vittime fornite da Caruso, ancora non si era arrivati al fatidico numero di 330. E allora dove trovare altre vittime? Kappler fece una cosa semplicissima, a quanto risulta confrontando le date e i luoghi degli arresti. Prese gli ebrei già rinchiusi a Regina Coeli, e sguinzagliò i suoi collaboratori italiani per il centro di Roma, in particolare nella zona di Portico d’Ottavia e di via dei Giubbonari. Le sue “bande” di collaboratori, d’altronde, avevano già reso un ottimo servizio nei mesi precedenti consegnandogli decine di ebrei. Nulla di più naturale, allora, che andare a caccia di ebrei per concludere la lista dei 330 previsti. Insomma, persone completamente innocenti furono arrestate allo scopo preciso di essere massacrate. E poi, perché uccidere di persona, come fece alle Fosse Ardeatine? Solo per dare l’esempio ai suoi soldati? Oppure perché voleva far sapere ai suoi superiori di essere in grado di uccidere? Per dimostrarsi un “fanatico” nazista? (“Fanatico”, per i nazisti, era un aggettivo positivo). Anche il dialogo con il comandante del reparto attaccato, che secondo Kappler si era rifiutato in quanto i suoi uomini, cattolici, si sarebbero rifiutati, è credibile, tenendo conto che anche tra i sottoposti del maggiore Kappler potevano esserci dei cristiani osservanti? E infine: è proprio vero che nella Germania nazista non era possibile rifiutarsi di obbedire ad un ordine, quando invece il codice penale militare di guerra prevedeva espressamente che ad un ordine palesemente illegale i militari potevano rifiutarsi di obbedire.
Per concludere: l’autodifesa di Kappler sembra far acqua da tutte le parte, così come quella precedente di Pietro Caruso e quella successiva di Erich Priebke, il secondo in comando di Kappler.
Tutto sembra far credere che, contrariamente a quanto affermato da tutti gli incriminati per le Fosse Ardeatine, non furono gli ordini, non fu la spietata legge di guerra, non fu l’obbligo militare, ma più probabilmente furono la volontà di fare carriera, l’odio nei confronti degli ebrei e un mal concepito senso di orgoglio militare a spingere questi piccoli uomini a trasformarsi in assassini di massa.