Una manciata di documenti e un’opera dubitativamente attribuita. Queste poche informazioni di solito non sarebbero sufficienti a tracciare la storia di un artista, eppure possono bastare a raccontarne alcuni dettagli che definiscono il suo modo di lavorare e di pensare. L’artista in questione è Moisè da Castellazzo, nato probabilmente a Cremona intorno al 1460, figlio del rabbino di origine tedesca Abraham Sachs, che presto si era trasferito nel piccolo comune di Castellazzo da cui prese il cognome. Poco altro si sa della sua vita se non di un matrimonio con la figlia di un banchiere di Alessandria e che aveva avuto un figlio Yechiel (che fu rabbino capo d’Egitto) e diverse figlie di cui si racconterà tra poco.
Quella di Moisè fu una vita fatta di spostamenti in diverse città settentrionali dove aveva stretto conoscenze illustri, compresa quello con Pietro Bembo e il duca Ercole I di cui aveva realizzato due medaglie, dedicandosi soprattutto a ritratti e incisioni.
Castellazzo scelse poi come sua ultima dimora Venezia, dove probabilmente morì nel 1527. Un lungo oblio sulla sua figura, dovuto soprattutto alla mancata conservazione delle sue opere e che durò fino al 1882. In quell’anno l’abate Rinaldo Fulin pubblicava un testo “Documenti per servire alla storia tipografia veneziana” in cui citava un documento autografo di Castellazzo; una novità che non era sfuggita alla stampa ebraica italiana di fine secolo che ne riportava il contenuto. Si trattava di una supplica inviata al Consiglio dei Dieci di Venezia per richiedere l’autorizzazione a stampare un’opera. Non si trattava di un’opera qualunque ma di una Bibbia illustrata con testi in più lingue. “Moysè, hebreo dal Castelazo” scriveva di essere un artista che aveva lavorato forse più per diletto che per mestiere che, arrivato in tarda età, aveva deciso di chiedere di stampare la sua opera in modo da avere una rendita fissa.
Diverse erano le novità che si evincono da questa richiesta: l’idea di fare del centro del volume delle immagini e soprattutto di renderlo accensibile a ebrei e cristiani. Il fatto più curioso è che aveva coinvolto in questa operazione le sue figlie femmine che ne realizzavano le incisioni: “io ho fatto intajar a mie fiole de sua mane tuti li cinque libri de Moysè”. Non sappiamo se il libro fu mai stampato però, poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu ritrovato nel quartier generale della Gestapo a Varsavia un codice rinascimentale con didascalie in ebraico e in italiano che portarono gli studiosi ad attribuire a Castellazzo l’opera.
Con la richiesta veneziana, Castellazzo cercava di avere un’entrata economica e dimostrava anche una doppia inclusività: non solo di diffusione di immagini bibliche viste da un “occhio” ebraico, ma desiderava introdurre delle donne della sua famiglia nell’arte delle incisioni, un mercato che al tempo sarebbe stato loro precluso.