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    L’uomo di Kiev e non solo

    L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, porta sconforto e ricordi funesti. Uno di questi è quello della famosa zona di residenza permanente dove gli ebrei furono confinati nell’Impero russo da Caterina II nel 1791 fino sostanzialmente alla Rivoluzione d’Ottobre. In questa zona, al di fuori della Russia vera e propria, che si estendeva dalla Polonia alla Lituania, dalla Bielorussia all’Ucraina, gli ebrei erano costretti a vivere. Alcune rare eccezioni per quelli più facoltosi vengono previste durante il regno di Alessandro II come ci racconta nei suoi saggi Alessandro Cifariello. Sempre con la promessa che si “russificassero”.

     

    Kiev, malgrado fosse al centro della zona di residenza, era esclusa dall’ospitare gli ebrei. Ed è qui che incontriamo L’uomo di Kiev, il romanzo scritto dall’americano Bernard Malamud nel 1966 e basato su una storia vera. Il libro è ambientato nella Russia zarista nel 1911 attraversata da scoppi di violenza antisemita. Yakov Bok è un ebreo che si guadagna la vita come tuttofare, lasciato dalla moglie, cerca fortuna a Kiev dove spacciandosi come gentile riesce a farsi assumere sorvegliante in una fabbrica di mattoni. Ma quando accanto alla fabbrica viene ritrovato il cadavere di un bambino alla vigilia di Pesach, si diffonde la voce che si tratti di un delitto perpetrato dagli ebrei a scopi rituali e Yakov viene accusato del crimine. Rinchiuso senza processo, umiliato, e abbandonato da tutti non smette di lottare per difendere la propria innocenza.

     

    Il vero uomo di Kiev si chiamava Menahem Mendel Beilis, viene arrestato il 12 marzo 1911 quando un ragazzo ucraino di tredici anni, Andrei Yushchinsky, scompare mentre va a scuola. Otto giorni dopo, il suo corpo mutilato viene scoperto in una grotta vicino alla fabbrica di mattoni. Beilis è arrestato il 21 luglio 1911 dopo che un lampionaio testimonia che il ragazzo era stato rapito da un ebreo. Beilis trascorre più di due anni in prigione in attesa di processo che si svolge a Kiev tra il settembre e l’ottobre del 1913.

     

    Pian piano le accuse contro Beilis cadono una ad una e viene fuori che il ragazzo è stato ucciso dalla madre di una sua compagna di classe nota alla polizia come parte di una banda di ladri e subito sospettata dell’omicidio. Beilis viene dichiarato innocente ed emigra in America. Il commento dello zar russo Nicola II è lapidario: “È certo che c’è un rituale (ebraico) di assassinio. Ma sono felice che Beilis sia stato assolto perché innocente”. Tutto questo cinque anni prima di venire ucciso dai bolscevichi.

     

    Immagino cosa sia stato vivere in una zona di residenza dove gli ebrei erano confinati e da dove non potevano allontanarsi. E ancor prima, l’essere comunque alla mercé di invasioni e guerriglia come descrive Nikolaj Gogol’ in Taras Bul’ba pubblicato nel 1835 e ambientato nell’Ucraina del 1600. Anche qui i cosacchi non perdono l’occasione di rimandare la guerra con i tatari perché protetti dall’impero ottomano, mentre combattono contro i cattolici polacchi che possono contare sui rinforzi. Così, alla fine, si ricordano sempre di punire gli ebrei, i più vulnerabili perché non protetti da nessuno.  

     

    Un altro capitolo più recente invece è quello dei racconti Margarita Khemlin, pubblicato dalla Giuntina, dal titolo quasi profetico: La terza guerra mondiale e altri racconti che descrivono la comunità ebraica ucraina nell’Unione Sovietica e subito dopo il crollo. Anche qui emergono i fantasmi del passato e le stragi naziste della Seconda guerra mondiale. Un ritratto sarcastico, ma anche pieno di speranza di una comunità che comunque si assottiglia sempre di più. 

     

    La guerra alla fine è nuovamente scoppiata all’interno di quello che è stato l’Impero Russo e l’Unione Sovietica e che pensavamo di esserci lasciati alle spalle. E anche questa volta non possiamo che essere in apprensione per tutto il popolo ucraino, ma soprattutto per la piccola comunità ebraica che lotta disperatamente per affermare la propria unicità. Per tutto il popolo sotto assedio, mi vengono in mente le ultime parole che Yakov pronuncia nell’uomo di Kiev. “Non puoi assistere con le mani in mano alla tua distruzione, dove non c’è lotta per la libertà, non c’è libertà”.

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