“Ogni riferimento ai fatti e alle persone che li hanno compiuti è autentico: ogni parola, ogni pensiero di quelle persone è un’idea, un‘immaginazione, una speranza”.
L’acrobata è il nuovo libro di Laura Forti uscito in Italia con Giuntina. Sulla copertina a sfondo rosso c’è un uomo a testa in giù appeso a un filo ingarbugliato. Che sia questa una figura simbolica, reale o entrambe il lettore lo capirà lungo il romanzo. L’autrice usa l’email per veicolare al nipote vicende personali che si intrecciano ad alcuni pezzi di storia del Novecento, dall’Italia fascista passando per il Cile di Allende e Pinochet. Nulla di strano, se non fosse che chi scrive è una signora avanti con l’età, che con il pretesto di sentire il nipote ripercorre la propria esperienza familiare, tra la depressione del padre, l’amore della madre per la lirica, il proprio per la geologia e la tragedia di una figlia gravemente malata, Claudia, che nel libro spunta sporadicamente. Pepo, il figlio riccioluto della signora che scrive e padre del ragazzo a cui le e-mail sono inviate, è il cugino della scrittrice Laura Forti, chiamato José Valenzuela Levi ma a tutti noto con il nome di Ernesto, un idealista di sinistra che decide di studiare economia ma che finisce nell’esercito per combattere la destra cilena. Sarebbe dunque giusto parlare di narrativa di testimonianza perché Forti ricopre il ruolo di testimone indiretto. Questo libro conta poco più di 100 pagine e in ciascuna di queste ho trovato emozioni e stati d’animo diversi. Il dolore, il coraggio, la tenacia si mescolano alla lotta per gli ideali rendendo questa storia variopinta. Ancora più della sofferenza provocata dall’esilio, del menefreghismo verso una figlia nei confronti di cui la protagonista sembra non nutrire amore, è la capacità di adattarsi alle situazioni che mi ha stupita. L’anziana signora ha forse ragione quando scrive che gli uomini si abituano a tutto: all’impensabile, all’indicibile, al dolore e alle sue variegate forme.