L’altra mattina avevo il turno d’alba in radio e verso le 4.30 sono passata sulla riva del fiume davanti all’antico quartiere ebraico. Non so se sognassi, ma dall’altra parte mi è sembrato nel buio di vedere barche attraccate ai moli piene di pescatori che avevano iniziato un mercato piuttosto particolare. Il pesce veniva messo all’asta e dato a chi gridava di più. Quello che sembrava più infervorato era un uomo sulla trentina vestito proprio come Rugantino, con il sanculotto, la fusciacca rossa in vita, la camicia bianca e il fazzoletto al collo. Sui capelli, però, non aveva la retina, ma la papalina. Ho pensato che la fantasia insieme alla miopia faccia brutti scherzi. Ma non avevo tempo per fermarmi, dovevo precipitarmi al lavoro. Appena finiti i giornali radio della mattina, ho preso due ore di permesso perché volevo rintracciare l’uomo dalla fusciacca rossa. Mi sono diretta verso l’isola Tiberina, sono passata davanti al Tempio dei giovani, ho disceso le scale e sono arrivata al fiume. E lì l’ho visto. Era vestito proprio come i romani popolani d’inizio ottocento, sembrava mesto e teneva in mano una cesta di vimini piena di fichi.
“Buongiorno”, ho gridato mentre mi avvicinavo con il mio vestito di jeans, le sneakers e l’immancabile giacca a vento da motorino.
“Se, bongiorno”, mi ha risposto lui triste.
“Cosa vi è capitato?”
“’N bavelle”, ovvero un casino in giudaico-romanesco.
“E perché?”
“Vedete cara gnora, io de mestiere faccio o’ Brutto”.
Mi sono spaventata, forse mi trovavo di fronte a un guappo, ma non mi sembrava avesse il coltello alla cintola.
“E cos’è di grazia questo Brutto?”
“Faccio er venditore dentro ste quattro mura serrate da matina e sera dalli sbiri pontifici”.
Avrei voluto ribattere che il Ghetto non esisteva più, ma non volevo interrompere il racconto di questo Rugantino in papalina.
“Vendo er pesce e pure ‘a frutta. Me la cavo bene, si nun fosse che quarche vorta incappo in ‘n guaio der mestiere, come stamatina. Pensavo de esse l’omo più fortunato der monno. Era finita la carestia a ridosso de Rosh Hashanà e avevo trovato du’ cassette de fichi”.
Un bel colpo penso io vicino alla festività del Capodanno ebraico che si svolge a settembre trovare due cassette di fichi per le primizie.
“E cosa è andato storto brav’uomo?”
“Come tutte le matine, me so’ recato ar “cottio”, ar mercato del pesce che viene venduto all’alba. Non posso compete’ con chi commercia sui tavoli de marmo ar Portico d’Ottavia, quelli c’hanno la licenza che la pagheno a peso d’oro ai nobili pe’ l’affitto, ma un po’ me la cavo. Ho preso preso quarche alice, un bel pezzo de tonno che nun me pareva vero e ho pensato questo me lo porto a casa, un po’ de triglie e pure du’ bei merluzzi. Uno me l’ha subito ricomprato ‘n venditore accreditato de via della Pescheria, l’artro sapevo già a chi piazzallo perché er giorno prima avevo avuto ‘na richiesta da la gnora Quintillina. Poi me so’ recato ar mercato della frutta e qui ho comprato sti fichi perfetti, ne volete assaggia’ uno?”
“No, sto a dieta”. Altro che carestie, ho pensato, al giorno d’oggi si lotta con i chili di troppo, caro mio.
“Ajo messo tutto nella cesta per venne la merce fresca nei vicoli dove le donne già staveno pe’ strada a fa’ la spesa pe’ la festività che s’avvicinava. De lontano, vedo subbito la gnora Sarìna, de certo, me so’ detto, nun je mancano i quatrini pe’ compra’ li fichi. ‘Ciaio robba per voi, gnora Sarina’, j’ho subbito urlato. ‘Cosa c’è?’, me fa lei. ‘Vardati fichi, un baiocco na duzzina’. Ero tutto tronfio, ma lei prende un fico, l’annusa e me fa: ‘Ma so’ de stamatìna?’. E io de rimmanno: ‘Come no! L’ajo portati giusto mo da Pescaria, co’ lo pesce de gnora Quintillina’. ‘Aah, per questo c’è sto puzzo che t’appesta. Varda desgrazzia (che disgrazia) non li voglio, puzzeno de merluzzo che è ‘na pesta’”.
Che caratterino, la signora Sarìna, ho pensato.
“Va a fini’ che sti fichi me resteno sur groppone – me so’ detto – ma adesso me faccio veni’ ‘n idea. ‘Come, ‘sti fichi sanno de merluzzo! – ho replicato – No, per l’amor mio e vostro’. E pòi li fichi so? Ho allargato le braccia e me ne so’ sortito: ‘no li fichi, so’ io che puzzo’. ‘Ah, pe’ puzza’, puzzate, pure – m’ha risposto issa – ma i fichi nun li vojo lo stesso” e ha proseguito dritta. Nun l’ha voluti nemmeno la gnora Quintilina che pure er merluzzo se l’è pijato. Nun è che li volete voi?”.
“No, guardate, sto in motorino, non saprei come portarli…”
“E che è ‘sto motorino?”
“Una specie di cavallo, senza cavallo”.
“Ma puzzeno, diteme la verità?”
Ne prendo in mano uno ed effettivamente l’odore acre spicca, ma non oso contraddirlo. “Mangiatelo, ve prego”.
Lo sbuccio e me lo mangio, penso che i cuochi gourmet oggi magari li utilizzerebbero per una pasta con fichi e altro ingrediente top.
“Aspettate” e tiro fuori il cellulare. “Eccola la vostra ricetta. Con il pezzo di tonno che avete preso, un po’ di melanzane e fichi, ci fate una pasta speciale per le festività”.
“Ma siete sicura?”
“Certo, è una ricetta di un grande chef”.
“De che?”
“Di un grande cuoco”.
“Date retta a me, andate a casa e passerete un Capodanno che ricorderete per gli anni a venire. Perché è vero che voi siete o’ Brutto, ma ‘sti fichi so’ belli, anche se puzzano un po’ de pesce”.
Il racconto è liberamente tratto dall’omonimo sonetto di Crescenzo Del Monte, pubblicato da Giuntina