Negli anni ‘60 per noi ragazzini la vita a Tripoli era piacevole, molti erano benestanti, i nostri genitori si davano un gran da fare e avevano attività di ogni tipo. Con esse contribuivano al benessere e sviluppo della Libia che da alcuni anni aveva iniziato lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio.
Vivevamo in belle case con tutte le comodità, ben arredate e fornite di diversi tipi di elettrodomestici che arrivavano direttamente dall’America. I nostri parenti che vivevano in Europa ancora non avevano la televisione e il telefono e rimanevano stupiti a vederli nelle nostre case. La tv trasmetteva anche telefilm americani, molto popolare era Combat, una saga a puntate di guerra che svuotava le vie quando lo trasmettevano.
La vita a Tripoli era semplice ma divertente, perché noi ragazzini eravamo in tanti e passavamo il tempo a giocare sui terrazzi fra i panni del bucato steso al sole e gli appartamenti degli amici che avevano sempre le porte accostate. Le nostre mamme avevano preso quest’abitudine per non star lì ad aprire ad ogni scampanellata di un branco di ragazzini sempre indaffarati ad andare di casa in casa e su e giù per le scale.
Quasi tutti i giorni si andava a passeggio ai giardini sul lungomare, fra palme e oleandri dove potevamo correre a perdifiato.
La città era aperta verso il mare con viali porticati per difendersi dalla luce sempre intensa. Il bianco delle case, il blu del mare e il verde delle palme creavano chiaroscuri dai contrasti definiti e la brezza rendeva il clima piacevole. Solo d’estate il caldo torrido, il ghibli, il vento del deserto, facilitava l’esodo verso le spiagge o, per chi se lo poteva permettere, verso l’estero.
Andavamo al mare spessissimo, si iniziava a Pesach, la Pasqua ebraica e si proseguiva fino ad ottobre. Noi ragazzini, appena usciti da scuola, tornavamo a casa per il pranzo e per fare il riposino pomeridiano, poi si prendeva la carrozzella trainata spesso da un ronzino e si andava al mare. La nostra aveva un vetturino arabo anziano come il cavallo che ci trasportava lento lento. Per fare andare la bestia, il vecchio usava una frusta che faceva schioccare vicino alle orecchie dell’animale senza mai colpirlo. Il percorso si sarebbe potuto fare a piedi in meno tempo, ma il viaggio in carrozza faceva parte del piacere di andare al mare.
Quando eravamo in prossimità, la strada lasciava spazio ad uno slargo dove si ammirava la facciata dello stabilimento balneare, tre archi acuti ad arabesco a strisce orizzontali di pietre bianche e rossicce. L’atrio del Lido, così si chiamava, era ampio e ombreggiato con un bel caffè con i tavoli addossati a una balaustra con vista sulla spiaggia e il mare.
Era tradizione affittare la cabina e l’ombrellone per tutta la stagione che venivano usate come piccole case, dove si lasciava di tutto, dai costumi agli asciugamani ai giocattoli dei bambini. La spiaggia era immensa con la sabbia bianchissima, il mare era blu come il cielo e per raggiungere l’acqua alta bisognava percorrere decine di metri di bagnasciuga cristallino e piacevolmente caldo. La nostra pelle abbronzata quando si asciugava, si ricopriva di una fitta ragnatela fatta di sale. I pomeriggi passavano felici fra giochi e bagni.
A una certa ora, si rimetteva tutto nella cabina, si attraversava l’androne ascoltando l’ultimo disco nel jukebox, ci si precipitava, come fosse una gara a chi arrivava per primo, per salire a fianco al vetturino e guidare la carrozzella fino a casa. Il vecchio arabo ci concedeva le redini e ci insegnava a condurre il cavallo che oramai sapeva tornare a casa da solo.
Il sole inesorabilmente iniziava a tramontare e si accendevano le prime luci della sera, mille lampadine bianche, rosse e verdi, tenute insieme da un semplice filo elettrico davano un senso di pace e gioia. Tornati a casa mia madre ci faceva il bagno ed in pigiama si era pronti per la cena.