La musica è da sempre un linguaggio in grado di mettere in contatto le persone a prescindere dal loro credo. È questo che fa da anni Miriam Meghnagi. Nata a Tripoli e trapiantata a Roma, Miriam frequenta la facoltà di filosofia all’Università La Sapienza, specializzandosi successivamente in Psicologia Dinamica e in Etnomusicologia. Considerata una delle più grandi interpreti del patrimonio musicale ebraico, Miriam è anche traduttrice per Marsilio, Savelli e Città Nuova. La sua musica è un tripudio di energie e influenze europee diverse, che abbracciano tutta la tradizione ebraica in maniera sinergica. Suoni ebraici e mediterranei che si fondono in lingue e dialetti differenti: dall’ebraico all’arabo. Dallo yiddish al ladino. Shalom l’ha intervistata in occasione della sua vittoria del Native DSD Albums of the Year Awards con l’album “Shirat Miriam”
Cosa rappresenta per lei questo premio?
È un premio che giunge inaspettato. L’opera risale in realtà a tanti anni fa, non ero al corrente della sua candidatura per l’anno 2021. Per me è un grande riconoscimento, il cd è stato pubblicato nel tempo varie volte. Questo premio va anche al tipo di registrazione, effettuata in direct stream digital – flusso diretto digitale, con microfoni analogici speciali come quelli usati dai Beatles, per esempio, e usati in genere da grandi cantautori d’epoca. È una bellissima cosa per me, specialmente perché Shirat Miriam è il primo cd apparso in Italia (Fonè 1987) come raccolta di canti ebraici, e ora si trova disponibile in DSD su NativeDSD e altre piattaforme online.
L’arte, coniugata in tutte le sue forme, può essere un veicolo utile per spiegare l’ebraismo in tutte le sue sfaccettature. Pensa che anche oggi la musica possa avere questa valenza nonostante tutte le “nuove” forme di intrattenimento?
La musica nelle sue varie declinazioni è da sempre un linguaggio in grado di mettere in contatto emotivo le persone. Io penso la musica come strumento di elevazione, come strumento di conoscenza, come esperienza emozionale. Penso che quello che scatta tra chi ascolta e chi canta sia un rapporto di conoscenza a più livelli, che va oltre il condividere un sogno, una storia, un racconto. È anche partecipare ad un’esperienza emotiva e apprendere da questa. Mi chiedo sempre se oggi la musica abbia una funzione e mi rendo conto di quanto sia difficile in realtà questo discorso. Sicuramente nella tradizione ebraica la musica e il canto hanno un posto centrale, sono importanti strumenti di elevazione, di trascendenza, ponte tra il cielo e la terra. Tuttavia, sono d’accordo, la musica può essere un mezzo per raccontare l’ebraismo nelle sue espressioni più diverse, di gioia, di dolore, di speranza. Il canto yiddish e sefardita, per esempio, parla e fa parlare sentimenti universali, ci si può riconoscere in un canto di nostalgia, di vita quotidiana, di amore o imparare usi e costumi popolari. Quello che cerco di fare in scena, è portare questi canti “qui e ora”. Quindi non come canti del passato, ma di oggi. Fare esperienza insieme oggi, qui e ora. Il suono stesso diventa scena. Il suono attraversa lo spazio, va oltre i confini territoriali, scontrandosi e incontrandosi con altri suoni, si mescola e si trasforma. Quello che conta per me è lavorare sia sul suono della parola, che del testo e della melodia.
Che significato attribuisce a questo riconoscimento alla luce del lungo suo patrimonio artistico?
Beh, sicuramente questo per me è una prova del fatto che tutto l’operato a cui mi sono dedicata fino ad ora ha avuto un valore, e lo ha ancora oggi, dopo tanto tempo. Durante il mio percorso ho realizzato vari progetti: cd con strumenti diversi, colonne sonore, musiche per teatro, pièce teatrali, ho usato la mia voce come strumento di comunicazione e racconto. E quel mio primo cd, raccolta di canti originali ed elaborati da me, di varie tradizioni musicali ebraiche, ebbe un valore particolare in quel momento (Fonè 1987) e lo ha ancora adesso. Questo riconoscimento sembra confermarlo. Non ho mai abbandonato questo tipo di repertorio, anche se oggi in esso ci sono molti più canti originali miei. Ho avuto modo di cantare in tutto il mondo, nei teatri più belli, anche per il Papa e per vari Presidenti di Stato. Ho cantato, anche in contesti molto importanti, per il dialogo tra le religioni e i popoli. Ho fatto tutto questo perché sentivo l’urgenza di raccontare qualcosa che nessuno aveva mai raccontato, almeno non in quel modo e non in quel tempo. Cantare la memoria. Narrare la voce di quelli che non c’erano più, che avevano cantato con passione, che avevano riempito il mondo delle loro voci e delle loro gesta, e che erano stati cancellati. E non ci sono parole per questo. Tale cancellazione ha lasciato un vuoto incolmabile nel mondo e nella storia. Nel mio caso, venivo da un paese arabo, avevo vissuto la cacciata, quella che poi è diventata per tutti noi, “l’esodo silenzioso”. Sono cresciuta, a Tripoli, in una cultura mista, europea e mediterranea: ebraica, italiana, araba, greca, sefardita, maltese, francese, inglese e anche americana. Sentivo il bisogno di ritrovare e comporre questo mondo lacerato tra oriente e occidente, maschile e femminile e raccontarlo in varie lingue e stili, con il canto. La letteratura e la poesia sono da sempre il mio viatico.