Le fotografie, i video e le ceramiche di Iris Nesher raccontano il mondo femminile, la maternità e la creazione. La creazione di una nuova vita e l’amore per un figlio perduto che può passare solo attraverso la forza della consapevolezza, in bilico tra un percorso personale e la condivisione collettiva. L’artista è ora a Roma per MATERIA, la sua prima personale in Italia, che inaugura il 10 febbraio alla Nomas Foundation. Come ricorda Raffaella Frascarelli – curatrice della mostra – da questo progetto affiora «la criticità del materno che non è monolitico perché emerge dalla modernità, in una dimensione che non può essere idealizzata perché deve fare i conti con la realtà. Una riflessione che porta a domandarsi come il “museo” possa conservare e trasmettere delle questioni individuali. Una domanda che resta aperta.»
Alla vigilia dell’inaugurazione della mostra, Shalom ha intervistato l’artista israeliana che decide di raccontare qualcosa della sua vita e del suo lavoro a partire da un’installazione che è in fondo allo spazio espositivo: un tavolo da pranzo con ceramiche in frantumi.
Come nasce un’opera come questa?
In questa mostra ci sono i lavori degli ultimi quattro anni, l’ultimo dei quali si chiama “Tavolo di famiglia”. In realtà ho cominciato come fotografa e scultrice, ma poi dieci anni fa mi sono dedicata alla porcellana. Quest’opera inizialmente era un “Tavolo artistico” poi tre anni fa mio figlio è mancato in un incidente stradale e il tavolo è cambiato, diventando un “Tavolo di famiglia”: rappresenta la vita. Ci sono stoviglie rotte e ogni piatto è ricucito come nella tecnica giapponese “kintsugi”, ma con del filo rosso. È un tavolo dove non c’è un numero preciso di commensali ognuno può prenderne parte.
È un tavolo per ricordare le proprie cicatrici o c’è anche una speranza?
Forse una speranza c’è perché non è tutto completamente in frantumi. C’è la possibilità di riparare, anche se allo stesso tempo tu non puoi tornare a essere ciò che eri prima.
La critica e poetessa Marlyn Vinig a casa con tre dei suoi sette figli, ebrei ortodossi.
“Non dimenticherò mai il mio incontro con uno specchio dopo il mio primo parto. Mi sono vista allo specchio e ho realizzato... questa adesso sono io, un’altra persona, e sono scoppiata in lacrime. Non era nato solo un bambino, ma anche la madre che ero diventata”.
E tu dove hai trovato la forza?
Ho deciso di lavorare, di essere attiva e partecipativa per diventare migliore anche se c’era una “me” differente. Dopo l’incidente di mio figlio tutti mi suggerivano di tornare al lavoro nel mio studio, ma ho sempre risposto che non ci riuscivo perché avevo bisogno di concentrazione. Poi mia sorella, che è un’insegnante di yoga, mi ha detto che per ripartire forse dovevo mettere in moto il corpo con le azioni e poi avrei potuto ricominciare con la mente. Ed era vero. Con il corpo, con il fare, è tornata l’arte.
E sei tornata a studio…
Sì e in quel momento ho capito che è vitale poter creare insieme ad altre persone. Ho un gruppo di amiche storiche che è con me da prima dell’incidente. Loro non sono tutti artisti, ma vengono nel mio studio e parliamo molto su come intervenire sui singoli pezzi su come romperli e come ripararli…
Ognuno connette le parti in maniera differente perché elabora diversamente. Per esempio in questo piatto la cucitura resta fenditura, un richiamo al mondo femminile. Quando sono venuta a installare il “Tavolo” per questa mostra eravamo tutte donne, come accade nel mio studio a Tel Aviv. Credo ci sia una forza nelle donne che lavorano insieme.
Anche nelle fotografie esposte sono quasi tutte donne
Sono tutte scattate in Israele e il tema è quello della maternità, declinata in modi diversi. Per esempio c’è Raida Adon un’artista palestinese che quando era ragazza ha deciso di non avere figli, molto differente dalla poetessa Marlyn Vinig che arriva da un ambiente ortodosso e a quarant’anni ha sette figli in un mondo che cambia.
L’attrice Evgenia Dodina e la sua anziana madre.
“Le due trecce sulla parete sono la mia e quella di mia sorella, che mia madre conserva da quando eravamo ragazzine.
Arriva un momento nella vita in cui si inverte la relazione genitore-figlio, e io ho scoperto in me, insieme alla tenerezza, anche una parte
mostruosa, che non voglio ammettere.
Non ho sempre la pazienza e la forza. Quando ti prendi cura di un bambino lo vedi crescere pieno di vigore e di prospettive per il futuro,
mentre quando ti prendi cura di un genitore lo vedi privo di forze, esausto, nell’attesa che la sua vita finisca”
E per te ora cosa è la famiglia?
È come quel “Tavolo” che ha quattro gambe: me, mio marito, mia figlia e mio figlio. Anche se ora ha solo tre gambe.
Mio figlio Ari è il bambino nel video che dorme in diversi musei (mi dice Iris indicandomi l’opera video “Falling out of time”, N.d.R.). Tutto è cominciato quando aveva quattro anni e siamo andati per una mia mostra in Polonia. Eravamo in un museo ed era stata una giornata lunga e stancante e lui si è addormentato nella sala. L’ho trovato molto dolce. La stessa cosa è successa anni dopo all’Israel Museum di Gerusalemme e in molti altri luoghi. Ho trovato queste foto interessanti perché molti artisti hanno fotografato i musei ma non i bambini nei musei, mi sembrava una prospettiva differente. Poi è diventato un gioco, una connessione intima. Quando è cresciuto e ha cominciato a studiare cinema anche lui si è interessato a questa serie di fotografie, avrebbe voluto farne una mostra in un museo: in quel momento ha cominciato a scegliere con me quali opere dovessero essere fotografate.
Immagino sia difficile per te rivedere questo tuo lavoro…
All’inizio sì soprattutto riascoltarne la musica. Ora è un modo per tornare insieme. In questo video vedo il mio ragazzo come un’opera d’arte in mezzo a quello che la società definisce opera d’arte, era arte dal mio corpo.
La mostra è stata realizzata con il sostegno dell’ Ufficio culturale Ambasciata di Israele, Roma e Herzliya Museum of Contemporary Art.