Dopo il 10 giugno 1940, quando l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Asse, ventuno profughi con passaporto polacco e di altri paesi in guerra con l’Italia, furono incarcerati a Genova come stranieri nemici, in preparazione all’internamento a Ferramonti o in altre località.
La madre di uno di questi prigionieri venne nell’ufficio della DELASEM (Delegazione Assistenza Emigranti), l’agenzia dell’Unione delle Comunità il cui presidente era l’avvocato Lelio Valobra, e la cui sede centrale era a Genova, per chiedere di intercedere con le autorità locali per liberare suo figlio dal carcere. Mio padre, Berl Grosser, che era il segretario responsabile dell’assistenza ai profughi, si recò in questura e chiese al commissario Giusto Veneziani di liberare questa persona, con la motivazione che anche se era di una nazionalità il cui paese era in guerra con l’Italia, non era un nemico dell’Italia. Il dottor Veneziani accettò di liberare il rifugiato, in cambio della garanzia scritta di mio padre che questa persona non avrebbe lasciato la città. Se il prigioniero avesse lasciato la città, mio padre, come garante per questa persona, sarebbe andato in prigione al suo posto. Mio padre diede la sua garanzia scritta e il giovane fu liberato.
Il giorno dopo, la stessa signora venne a ringraziare mio padre e chiese il suo aiuto per liberare il marito imprigionato. Mio padre le chiese perché non gli avesse parlato prima di suo marito e lei rispose: “Non ero sicura che Lei sarebbe stato capace di liberare due persone”. Mio padre tornò dal Commissario Veneziani e il secondo prigioniero fu liberato con la stessa garanzia da mio padre. Altri rifugiati i cui parenti erano stati imprigionati come cittadini di paesi in guerra con l’Italia, vennero a sapere che mio padre ne aveva liberati due dalla prigione e chiesero il suo aiuto per liberare i parenti. In pochi giorni furono liberati ventuno profughi con la stessa garanzia di mio padre. Nessuno dei profughi liberati lasciò la città.
Qualche settimana dopo, in segno di riconoscenza, mio padre ricevette in regalo da questi profughi un portasigarette d’argento con i loro nomi incisi all’interno. Di fronte ai loro nomi vi era scritto: “Caro Grosser, ogni qualvolta che apri questa scatoletta, il ricordo di questo lieto giorno ti valga di incoraggiamento ed incitamento ad aiutare i tuoi”. Successivamente, quando questi “stranieri nemici” furono trasferiti in treno nei campi di internamento, mio padre ottenne dal colonnello dei Carabinieri alla stazione di Genova l’autorizzazione a farli viaggiare come passeggeri liberi senza le manette previste dai regolamenti di polizia.
Nel 2003, dopo la morte di mio padre, il suo caro amico Amedeo Mortara, scrisse sul Bollettino della Comunità di Milano: “Berl Grosser era l’anima del DELASEM. […] Quando i profughi a Genova furono arrestati, Berl si offrì in ostaggio. Il suo coraggio non va dimenticato”.
Mio padre aveva conservato gelosamente documenti e foto della Delasem e decise di consegnarli al suo archivio presso l’istituto Yad Vashem di Gerusalemme. Quando mi parlò di questa sua decisione, gli chiesi di lasciare a me il portasigarette d’argento. Dissi a mio padre che quando avrei avuto bisogno di pregare, avrei potuto indicare questo portasigarette e chiedere al Signore di aiutarmi grazie ai suoi meriti di avere liberato degli ebrei dalla prigione!