Proponiamo di seguito un estratto del libro di Edith Bruck “Lettera alla madre” pubblicato in una nuova edizione da La Nave di Teseo
Quante volte avevo incominciato a scriverti! Cento, mille? Non so. So solo che scrivevo e buttavo via i fogli uno dietro l’altro, come quando si incomincia una lettera a qualcuno che si ama molto senza la sicurezza di essere riamati.
Non ho neppure un’idea molto chiara su ciò che ho da dirti, anzi, è un mistero anche per me. È qualcosa che non mi lascia in pace e non ti lascia in pace. Ciò che è certo, l’unica certezza è che tra noi due c’è qualcosa di sospeso, forse è solo l’infinito silenzio, la lontananza mai congiungibile? Il troppo breve tempo passato insieme è un legame indissolubile, ma anche un’estraneità a volte insopportabilmente dolorosa. Forse è tutta colpa della tua fede, ne avevi da vendere, io non ne ho neppure per me. Per fede intendo credere in Dio, nel proprio Dio. Credere nell’inferno, nel paradiso, nella giustizia celeste. Mi mette a disagio perfino elencare l’essenziale per poter dirsi credente. Nei confronti della fede manco perfino di immaginazione. Non ho mai letto fino in fondo neanche la Bibbia, unica lettura che avremmo potuto avere in comune, la tua unica fonte di cultura imparata a memoria da tempi immemorabili.
Ti avverto che ti scriverò tutto ciò che mi salterà in mente, dirò tutto, non ti nasconderò niente. Come potrei? Ho bisogno proprio di te, per non mentire, non tradire, essere me stessa anche se non ti piaccio o non mi piaccio. Non ci siamo scelte, per caso siamo madre e figlia, e poichè tu eri mia madre io ti ho amato e ti amerò per sempre, come nelle favole.
Tu mi hai concepito per volontà di Dio come tutti i tuoi tanti figli. Tu non hai fatto l’amore per amore, pur amando mio padre, ma per dovere, siamo nati per decisione divina, come fossimo figli di Dio, non di nostro padre e tuoi. Sembrava che papà non c’entrasse per niente, come se ti avesse messo incinta Dio stesso.
Se è vero che i morti non muoiono, che sanno tutto, saprai che io vivo a Roma da una vita. La seconda? La terza? Diciamo da un avanzo di vita, tu capisci di cosa parlo, vero? Fin qui mi segui e spero che ti riconoscerai. Non riconosci forse in me tua figlia, ancora resistente alla preghiera?
No no, non te la prendere subito, non andartene, ascoltami! Sei costretta. Meglio che ti prenda per mano. Così non scappi. Non ti liberi di me. Questa volta devi ascoltarmi. Non puoi farmi stare zitta. Scrollarmi di dosso facilmente con la scusa che hai da fare: rattoppare i nostri stracci, lavare, stirare, pulire, mettere insieme i pasti per i tuoi figli mai sazi. Non puoi dirmi nulla se io non ti do la parola. Sarò più generosa di te, te lo prometto. Ti lascerò dire ciò che conosco già, ti farò ripetere ciò che avevo sentito dalla tua bocca fino all’ultimo, fino all’ultima parola, è il tuo testamento: “Obbedisci! Obbedisci!” gridavi lasciando la mia mano, il mio corpo, anzi, spingendomi via da te, consegnandomi al soldato, alle sue botte per mandarmi dall’altra parte, nella direzione opposta alla tua.
Né tu né io sapevamo che tu andavi nel gas e io ai lavori forzati, verso una probabile sopravvivenza che chissà come e perché s’è avverata.
“Per volontà di Dio,” è pronta la tua risposta ma io non te la lascerò dire perché non voglio litigare con te subito, è la pace che cerco! È dal ventotto di maggio del 1944! Eppure me lo ricordo quel giorno come fosse oggi, un giorno eterno, senza tempo, racchiude tutti i tempi. Io mestruavo. Ero al quarto giorno, mamma, come il nostro unico viaggio insieme.
“Ci mancava solo questo,” mi dicevi mentre ci caricavano sul vagone dove non c’era neppure un pezzo di carta per raccogliere quel sangue che mi scivolava sulle gambe nude morte di freddo alla fine di maggio come fossimo in gennaio.
Hai strappato una striscia della tua sottoveste di cotone come papà il suo bavero in segno di lutto.
Sapevo già, l’avevi detto tu che il sangue mensile voleva dire che ero una donna, che avrei potuto avere dei figli quando mi sarei sposata.
“Obbedisci!!!” mi cacciavi via, mentre io infuriata mi dibattevo, strillavo come i maiali natalizi sotto il coltello dei padroni. Per colpa mia il soldato ti ha colpito, ti ha abbattuto, perdonami, ma come potevo lasciarti, lasciarmi portar via da te.