L’esigenza e la cautela nel ricordare la Shoah con interventi pubblici, nella forma di monumento, si è spesso scontrata con la difficoltà di scegliere un linguaggio che potesse essere rispettoso ma allo stesso tempo comprensibile. Il grande interrogativo affrontato dagli artisti – e forse anche dalle commissioni che dovevano scegliere i lavori – è stato se preferire un linguaggio figurativo, quindi connesso con il reale, o astratto. Per comprendere le varie strade finora intraprese mi limito a citare tre esempi di artisti che hanno affrontato il tema in tre continenti diversi con altrettanti esiti: Stati Uniti, Europa e Israele.
Tra quelli che ripropongono una rievocazione dei lager c’è “The Holocaust” realizzata a San Francisco da George Segal (1924-2000), artista ebreo di New York figlio di genitori provenienti dell’Est Europa, che nel 1981 non mancò di suscitare polemiche per il troppo realismo. Questo lavoro in bronzo, patinato in bianco a simulare il gesso, utilizza la tecnica del calco di persone e di oggetti. Dieci corpi inermi, tra cui una donna che tiene una mezza mela mangiata a simboleggiare Eva, sono accatastati a terra. Questi cadaveri si contrappongono a una unica figura “viva” (calco di un sopravvissuto alla Shoah) che si tiene a una recinzione di filo spinato vuole rappresentare una speranza.
Il secondo monumento pur utilizzando una immagine reale segue una logica completamente diversa. Si tratta di un’opera nella Judenplatz di Vienna ed è stato realizzata nel 2000 da Rachel Whiteread (1963). Questa scultura sorge nel cuore di quello che era il quartiere ebraico e si presenta come un parallelepipedo in cemento dove si riconosce una porta, che la fa apparire come una stanza inaccessibile. Avvicinandosi ci si accorge che ciò che è impenetrabile sono i libri, anch’essi in cemento, che compongono le pareti di questo monumento: sono infatti posizionati con la costa volta verso l’interno della costruzione. Ognuno rappresenta simbolicamente tutte le storie che non possono essere più raccontate.
L’ultimo memoriale che si prende qui come e esempio è quello realizzato a Tel Aviv dall’artista israeliano Igael Tumarkin (1933-2021) negli anni settanta. A differenza dei precedenti, l’artista ha scelto l’uso di elementi geometrici che nel loro sovrapporsi evocano il popolo ebraico. Il “Monumento alla Shoah e alla resurrezione” (1972) sembra apparentemente una gabbia rovesciata piramidale ma che se, osservata dall’alto, assume la forma di un maghen David.
Probabilmente non esiste un modo corretto di rappresentare le cose e il dibattito sui linguaggi e i messaggi sarà sempre aperto. La rappresentazione della Shoah animerà sempre posizioni diverse, ma sempre nell’ideale di uno scopo comune: ricordare.
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