In questi giorni si celebra il tricolore che compie 225 anni, simbolo della nascita dell’Italia e dell’emancipazione ebraica, ma ci piace ricordare anche un altro simbolo della nostra nazione che ha a che fare proprio con l’ebraismo: ovvero il Nabucco e il Va’ Pensiero. È strano come i destini di due popoli, quello ebraico durante la cattività babilonese, e quello italiano durante il Risorgimento, si fondano grazie al capolavoro verdiano.
Il Nabucco va in scena alla Scala, nella Milano sotto la morsa austroungarica, il 9 marzo del 1842. Da subito, viene acclamato dalla folla e gli applausi del pubblico durano dieci minuti. Un successo isperato per Giuseppe Verdi che dovette lottare per mettere in scena senza fondi quella che sarebbe diventata l’opera simbolo del nostro Risorgimento con scene e vestiari usati, ma forse fu proprio per questo che suscitò ancora di più l’agognare la patria perduta che tutti i milanesi in quel momento sentivano.
Le leggende portano anche il dubbio se l’autore del libretto Temistocle Solera o lo stesso Verdi si rendessero conto nei giorni precedenti alla Prima alla Scala della portata patriottica del testo. Verdi dichiarò sempre di aver pensato all’aspetto religioso, di come quel libretto, che non l’affascinasse, si aprì quando lo gettò sul tavolo al ritorno da casa proprio sulla pagina del Va’ Pensiero e di come lui lo lesse per tutta la notte. Di certo, Solera era affiliato alla carboneria. Dopo il 9 marzo del ’42, l’opera fu rappresentata per ben 64 volte e Verdi divenne il compositore più amato sia dagli appassionati di lirica sia dai patrioti. Tanto che per acclamare Vittorio Emanuele, Re d’Italia, i milanesi e i veneti scrivevano sui muri il suo acronimo: Viva Verdi, appunto.
Ma cosa provocò ad un tratto questa passione? “A coinvolgere il pubblico ed emozionarlo – scrive l’ultimo numero di History che analizza il rapporto tra opera e patriottismo – era naturalmente il coro degli ebrei prigionieri di Babilonia che rimpiangevano la patri sì bella e perduta e che gli ascoltatori indentificavano con l’Italia oppressa”.
Il Nabucco resta un monito anche più recente. Rappresentato il 12 marzo del 1911 nel 150° Anniversario dell’Unità d’Italia diventa un canto di battaglia contro la morte della cultura. A dirigere dal palco del Teatro dell’Opera, è Riccardo Muti che, mentre il pubblico applaude, chiede il bis e grida Viva l’Italia, lancia un appello: “Sono molto addolorato per quello che sta avvenendo. Se rifaccio il bis, non lo faccio solo per ragioni patriottiche, questa sera mentre il coro cantava o mia Patria sì Bella e Perduta, ho pensato che se noi uccidiamo la nostra cultura su cui è fondata la storia dell’Italia veramente la nostra patria sarà bella e perduta”. Un avvertimento prezioso ancora oggi.
Immaginiamo allora quella Milano, alla Scala, che nel 1842, ascoltava per la prima volta il coro del Nabucco in una città che pochi anni più tardi, nel 1848, sarebbe stata sconvolta dai moti oppressi dal generale Radetzky. E ci viene in mente il Capodanno appena trascorso dove il concerto della Fenice si contrappone ormai a quello di Vienna che si conclude proprio con la marcia dedicata al vecchio generale austriaco. Mentre alla Fenice si termina con il “Libiamo ne’ lieti calici”, aria verdiana tratta dalla Traviata, come appunto il Nabucco, l’opera che, attraverso l’epopea del popolo ebraico, ha fatto scoprire agli italiani di essere una nazione insieme al Tricolore.