Forse sei mesi fa in Israele qualcuno si era illuso che la costituzione di un nuovo governo composto da sinistra estrema e moderata, destra e anche da un partito arabo (in sostanza tutti i nemici di Netanyahu, con l’esclusione del Likud e dei religiosi), avrebbe finalmente portato a una gestione tranquilla della vita politica e alla diminuzione delle tensioni fra i partiti. Ma questa speranza, già messa a dura prova da sei mesi di aspri conflitti politici, è certamente caduta nei giorni scorsi, quando la Knesset, il parlamento israeliano, è stato teatro di uno scontro durissimo.
L’occasione è stata la votazione di una legge che consente l’allacciamento alla rete elettrica delle abitazioni illegali costruite soprattutto nel Negev dai beduini e in certe città arabe della Galilea. E’ un prezzo politico pagato dalla maggioranza per l’appoggio determinante del partito arabo Ra’am, che ha minacciato di far cadere il governo se non fosse stata approvata. Ma è anche di fatto un incentivo all’edificazione illegale, che è uno dei problemi urbanistici gravi nel territorio tradizionale di Israele e soprattutto in Giudea e Samaria. Ed esso contribuisce a normalizzare uno stato endemico di illegalità nella parte araba di Israele che è fra le questioni più urgenti che lo stato deve affrontare. Oltre a questo vi è naturalmente il tema del conflitto nazionale: dando via libera a una sorta di sanatoria per il settore arabo si produce un’evidente impressione di debolezza della maggioranza ebraica.
L’opposizione e in particolare il Likud aveva cercato di bilanciare questa scelta proponendo che anche ai cosiddetti “avamposti”, cioè gli insediamenti prevalentemente giovanili non autorizzati in Giudea e Samaria fosse concessa un analogo allacciamento alla rete, ma il partito Ra’am ha posto il veto a ogni modifica della sua “legge elettrica” e la maggioranza si è piegata, incluso il partito del primo ministro Bennett, “Yamina”, che pure si era presentato alle elezioni come il movimento più vicino agli insediamenti. Ne è nato un tumulto parlamentare grave, con insulti e minacce tanto che l’opposizione abbandonato l’aula, minacciando di boicottare del tutto i lavori della Knesset.
La polemica non si è spenta finora e vi si aggiungono altre divisioni. Ieri è uscita una presa di posizione del viceministro dell’economia Yair Golan, del partito di estrema sinistra Meretz, in cui in mezzo ad altri insulti definiva “subumani” i giovani degli avamposti, suscitando la richiesta di dimissioni del Likud e un rimprovero da parte di Bennett. Il primo ministro però appare incapace di contenere il disordine e le spinte estremiste nella sua coalizione, anche perché la rappresentanza parlamentare del suo partito è molto bassa (6 su 120 deputati) e nei sondaggi appare ancora in diminuzione, mentre il governo va avanti con un solo voto di maggioranza, rendendo determinante ogni singolo deputato.
Mentre gli altri leader della maggioranza e candidati a sostituirlo prima o poi, cioè Benny Gantz e Yair Lapid, si dedicano a incontri diplomatici e trattative che spetterebbero forse al primo ministro, Bennett si logora a tenere assieme un governo che produce decisioni, certamente indigeste ai suoi elettori. Nel frattempo è in atto un duro scontro fra il ministro per gli affari religiosi, Matan Kahana, anche lui di Yamina e il rabbinato, che non gradisce le sue proposte di riforma del sistema delle conversioni e della certificazione di conformità religiosa (kasherut) degli alimenti. Insomma, la crisi politica in Israele non è affatto finita e presto potrebbe esplodere di nuovo, appena un partito della maggioranza sarà abbastanza sicuro della convenienza di abbandonarla per formare un nuovo governo col Likud o per andare a nuove elezioni.