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    Pi di punteggiatura

    Molti dei disegni di Saul Steinberg (1914-1999) nascono dallo spazio ricavato nelle parole della carta stampata, cioè da un riquadro lasciato libero per le vignette umoristiche. Nella lunga e prolifica attività di artista, disegnatore e anche di cartoonista per il “The New Yorker” ha saputo raccontare, con grande tecnica e ironia, le paure e le contraddizioni dell’uomo. Questa attitudine gli era già chiara nella Milano degli anni trenta, dove era arrivato dalla Romania dopo il mancato ingresso alla facoltà di architettura che probabilmente limitava il numero di studenti ebrei. In contemporanea con i suoi studi al Politecnico di Milano, e prima che le leggi razziali interrompessero almeno ufficialmente la sua carriera, aveva scoperto la vocazione all’illustrazione. 

    Era poi arrivato a New York, dopo una detenzione nel carcere di San Vittore e quella in un campo di internamento a Tortoreto, tornando in Europa al seguito dei servizi segreti americani come artista che realizzava materiali di propaganda antifascista e antinazista.    

    Dopo la guerra sarebbe diventato una delle matite più influenti della cultura americana dimostrando che la sintesi di uno schizzo poteva raccontare la contemporaneità tanto quanto i caratteri tipografici.

    Steinberg non ha mai sentito il peso delle parole, anzi dall’inizio degli anni sessanta gli ha dato la forma del loro significato trasformandole in oggetti disegnati, assegnando un nuovo senso visivo alle lettere. È così che riesce a insegnarci che spesso i limiti sono nostre costruzioni: in una illustrazione un uomo vorrebbe superare un fosso, ma una grossa scritta gli consiglia di non farlo (DON’T). L’apostrofo della lingua inglese diventa però un appiglio per saltare l’ostacolo, un dettaglio della punteggiatura che può essere opportunità.


    S. Steinberg, Don’t, “The New Yorker”, 8 novembre 1969

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