È importante ricordare e conoscere la storia, ma l’empatia, la solidarietà e l’informazione non sono sufficienti quando si tratta di Shoah: in questo caso non stiamo parlando esclusivamente di fatti storici, ma di una tragedia avvenuta nel cuore dell’Europa, perpetrata da persone che per lo più si ritenevano civili, educate, acculturate. L’orrore è accaduto anche grazie a meccanismi mentali – che coinvolgono discipline come, ad esempio, la sociologia e la psicologia – che devono essere studiati e compresi, altrimenti le parole “Mai più” diventano solo una sterile ripetizione.
Anche di questo si è parlato durante il Convegno “Holocaust, medicine and legacy. A multidisciplinary perspective for new histocal, ethical, and bioethical issues” organizzato lo scorso novembre da Sapienza Università di Roma nell’ambito della convenzione stipulata con vari enti, tra cui la Comunità Ebraica di Roma.
In particolare, il prof. Volker Roelcke (University of Giessen) ha analizzato l’etica prima e durante il nazismo, tentando di chiarire come sia stato possibile che la medicina sia stata coinvolta nel più grande e articolato tentativo di distruzione di massa del ‘900. E’ pur vero che molti dei medici che hanno partecipato alla Shoah non erano dei luminari e le loro ricerche non sono state rilevanti (giustamente, a tale riguardo, Paul Weindling dell’Oxford Brookes University, durante il Convegno ha parlato di crudeltà, non di scienza), ma ve ne erano pur altri che erano competenti.
Ad esempio il “mostro per eccellenza” della Shoah, Josef Mengele, che uno studio recente (David G. Marwell, Mengele. Unmasking the “Angel of Death”, New York, W. W. Norton & Co, 2020) ha descritto come uno studente di medicina che ha studiato con grandi maestri, dopo la laurea era un promettente scienziato e ha utilizzato la Shoah per quelli che egli considerava i suoi fini scientifici, mantenendo incredibilmente una sorta di percezione dell’orrore, infatti, nel libro è riportato che la moglie gli chiese cosa succedeva ad Auschwitz, ed egli rispose: “Non posso parlarne, è orribile”.
A tale riguardo, nel corso del Convegno il prof. Fabio Lucidi (Sapienza Università di Roma) ha parlato di “disimpegno morale collettivo che ha creato isole di amoralità nella moralità sempre più ampie”. I nazi-fascisti che hanno partecipato allo sterminio non erano semplicemente sadici: lo dimostrano le testimonianze dei soldati che hanno effettuato uccisioni di massa e la stessa pur sconcertante affermazione di Mengele, insieme ai tanti esperimenti su tali meccanismi mentali effettuati principalmente negli Stati Uniti dal dopoguerra agli anni 2000. Infatti, quasi tutti hanno mostrato di comprendere il male che stavano facendo all’altro, ma hanno continuato a farlo da un lato in virtù di un “bene superiore” (salvare la propria nazione o partecipare a un test che avrebbe fatto progredire la scienza a favore dell’umanità: qualcuno doveva pur farlo e per questo la persona coinvolta si sentiva oltretutto onorata di partecipare a tale progetto) e dall’altro grazie anche all’apparente assenza di diretta responsabilità (che era solo del comandante o del medico che conduceva l’esperimento scientifico).
È fondamentale anche considerare che, già da fine ‘800 e poi dopo la prima guerra mondiale, la percezione della violenza e dell’eugenetica era molto diversa da quella attuale – come ben sottolineato dal prof. Volker Roelcke – e, inoltre, l’efficace propaganda nazi-fascista, insieme alla tecnica di suddividere i ruoli, fecero sì che, a fronte di un’analisi superficiale, era molto difficile avere il quadro completo di ciò che stava effettivamente accadendo.
A tale riguardo, durante il Convegno, Mario Toscano (Sapienza Università di Roma), ha sottolineato la “funzione corruttrice del regime” che ha indottrinato i giovani (nel 1938 vi erano cattedre di razzismo nelle Università) che dopo la guerra sono paradossalmente diventati funzionari della Repubblica.
Comprendere, riconoscere e quindi reagire al “male” è un’operazione estremamente complicata perché la vita non è divisa nettamente tra male e bene: il comandante del lager di Auschwitz a casa sua era un padre amoroso, un tenero marito e un padrone amorevole con i suoi cani. L’idea che coloro che hanno fatto in modo che la Shoah accadesse, in modo attivo o passivo, erano persone come noi è certamente angosciante ma bisogna avere il coraggio di fronteggiare le proprie inquietudini, proprio per superarle e sperare concretamente in un mondo migliore, altrimenti il ricordo della Shoah rischia di restare prigioniero del passato, spingendo le persone a considerale quella immensa tragedia, lontana, estranea, come “altro da sé”.