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    “Antonietta Raphaël. Attraverso lo specchio”. Una mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna

    Lo specchio che riflette se stessi e che restituisce un doppio. Da una parte i colori saturi che invadono la pittura dall’altra i vuoti e le sottrazioni di sculture solide e introspettive. È su questa e altre dialettiche che si snoda l’antologica dedicata ad Antonietta Raphaël, che si apre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma a cura Giorgia Calò e Alessandra Troncone, promossa in collaborazione con l’Istituto Lituano di Cultura e l’Ambasciata di Lituania a Roma. Un percorso non cronologico ma tematico, che racconta di un cammino umano e artistico che parte in Lituania a Kovno (oggi Kaunas) nel 1895 dove la Raphaël era nata in uno shtetl, figlia del rabbino Simon. Nel 1905 poco dopo la morte del padre era cominciato un cammino che l’avrebbe portata con la madre a Londra, lontana dai pogrom zaristi, studiando musica – si diplomò pianista concertista alla Royal Accademy of London – e condividendo luoghi ed esperienze con altri intellettuali ebrei.

    L’indipendenza era arrivata presto e con essa gli spostamenti in Francia e l’approdo a Roma, alla fine del 1924, dove era entrata all’Accademia di belle Arti di Roma intrecciando la sua vita artistica e sentimentale con Mario Mafai.  Un lungo rapporto, spesso burrascoso, da cui nasceranno tre figlie (Miriam, Simona e Giulia recentemente scomparsa) e che darà vita in campo artistico, insieme a Scipione, a quella che Roberto Longhi definì “Scuola di via Cavour”: dalla loro abitazione sarebbe partito un linguaggio espressionista che avrebbe influenzato generazioni di artisti nella capitale. 

     

    Ciò che emerge dalla mostra è un dialogo, più spesso una dualità, tra oriente e avanguardia, tra una femminilità tenace e combattiva – come quella delle eroine bibliche Giuditta e Tamar – e la maternità intesa anche come creazione artistica. Lo sguardo alla tradizione ebraica si estende ai momenti di vita come nel dipinto “Yom Kippur nella Sinagoga” (1931) e “Mia madre benedice le candele” (1932), dove compare la chanukkià del padre conservata dall’artista. Costanti nella sua produzione sono gli autoritratti che mettono in campo le diverse rappresentazioni di se stessa, di artista che indaga la sua identità.

    L’esposizione nella Sala Aldovrandi, si estende anche negli spazi del museo creando relazioni con altri artisti e le sue opere già in collezione. È questo il caso della scultura “Le tre sorelle” (1936), la cui versione in bronzo fu donata lo scorso anno dalla figlia Giulia al Museo Ebraico di Roma in ricordo delle bambine ebree mai più tornate dai campi di sterminio.

    In mostra anche dieci disegni che evidenziano come la produzione grafica sia andata di pari passo con quella scultorea e pittorica. Al tema è stata dedicata nel 2017 una mostra a cura della stessa Calò “Antonietta Raphaël Mafai – CARTE” (Roma, Museo Carlo Bilotti), seguita nel 2019 da “Raphaël i segni e il segno” a cura di Cesare Terracina (Roma, Galleria Aleandri Arte Moderna). Tra le carte in mostra anche un autoritratto ad acquerello del 1930 proveniente dalle collezioni del Museo Ebraico di Roma, parzialmente coperto da una mano. «La mano che sorregge il volto dell’artista gioca un ruolo fondamentale. Quelle rappresentate da Antonietta sono mani che compiono precise azioni, dal gesto più intimo e domestico come pettinare, a quello più sacrale della benedizione» ricorda Giorgia Calò, che coglie l’occasione per riflettere sul ruolo della donna nell’opera di Antonietta Raphaël: «Sono donne indipendenti e volitive, in grado di declinare la loro grazia e bellezza in forza e combattimento, rivendicano la propria identità e il proprio ruolo».

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