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    La storia delle Cinque Scole di Roma

    In occasione della mostra fotografica “Roma com’era- vedere e vivere la storia della città” pubblichiamo di seguito un estratto dall’ultimo libro di Stefano Caviglia “Guida inutile di Roma. Luoghi e storie della città di un tempo” (Edizioni Intra Moenia) 

    Le Cinque Scole della piazza più volte citata erano le sinagoghe di Roma. In ciascuna di esse si officiava il rito secondo la specifica tradizione delle componenti storiche più importanti della comunità: due sinagoghe erano per gli immigrati giunti dalla Spagna nel 1492 (Scola Catalana e Scola Castigliana), una per quelli provenienti dalla Sicilia (Scola Siciliana), altre due per gli ebrei che si trovavano a Roma già al tempo di quelle migrazioni (Scola Tempio e Scola Nova). Prima dell’istituzione del ghetto ve ne erano state anche altre, fra cui una francese e una aragonese. Ma poiché lo spazio non era sufficiente per tutte, quelle con numeri più piccoli furono aggregate alle maggiori.

    Fa parzialmente eccezione a questo schema la cosiddetta Scola Portaleone, piccola sinagoga per lungo tempo dimenticata e tornata recentemente al suo posto nella memoria storica degli ebrei di Roma grazie al paziente lavoro di uno studioso che ne ha seguito le tracce fra le carte dell’Archivio della Comunità ebraica. Le sue ricerche hanno dimostrato che questa sinagoga, esistente fin dalla prima metà del Cinquecento, fu chiusa al momento dell’istituzione del ghetto e poi riaperta un quarto di secolo dopo per restare in funzione fino al 1735. La sua vicenda, cui qualche anno fa è stato dedicato il volume La scomparsa della sesta Scola, è interessante anche per il luogo in cui si trovava: un piccolo riquadro in corrispondenza di Monte Savello (subi- to dopo la porta in prossimità di ponte Quattro Capi), che gli ebrei di Roma risultano aver utilizzato in vari periodi, in particolare durante la peste del 1656, detto «ghettarello». Grazie agli studi di Giancarlo Spizzichino sulla Scola Portaleone sappiamo dunque che il ghetto di Roma ebbe, almeno per alcuni periodi, questa sua piccola appendice esterna. 

    Torniamo ora alle sinagoghe principali, che erano importanti anche dal punto di vista amministrativo, visto che ogni famiglia aveva la sua scola di appartenenza e ciascun gruppo, almeno nei secoli più lontani, pesava negli organi interni di governo del ghetto in proporzione al numero degli iscritti alla rispettiva sinagoga. Se si trovavano tutte nello stesso posto era a causa della limitazione che permetteva l’esistenza di un solo luogo di culto ebraico in tutta la città. Così, per salvaguardare l’esistenza dei diversi riti, si allestirono cinque sinagoghe in un solo edificio, affacciato sulla piazza più importante del quartiere. Nei loro arredi di marmo e nei tessuti preziosi usati per «vestire» i rotoli della Torah (alcuni dei quali si possono ammirare oggi nel Museo ebraico cui si accede dal retro del Tempio Maggiore) confluirono per secoli le offerte degli ebrei più facoltosi del ghetto di Roma. 

    La facciata esterna dell’edificio, come si può vedere nelle poche immagini che ne rimangono, conteneva una torre con in cima un orologio e un’edicola neoclassica sostenuta da quattro colonne di marmo realizzata nel 1835. L’insieme aveva una sua eleganza, ma era pur sempre il luogo di preghiera dei tempi di oppressione, quasi nascosto in mezzo alle altre costruzioni del ghetto. Nessuno pensava che potesse assolvere lo stesso compito anche in epoca di libertà. 

    Per questo fin dai primi anni dopo l’emancipazione si cominciò a discutere della costruzione di un nuovo tempio. La vicenda si intrecciò con quella della demolizione del quartiere e con la crisi economica determinata dal crollo dell’edilizia (causa, fra l’altro, del dissesto della banca cui il Comune aveva concesso i diritti di edificazione in gran parte dell’area) che rese inevitabile il rinvio del progetto di diversi anni. Nel frattempo si aprì all’interno della comunità un acceso dibattito fra quanti avrebbero avrebbe voluto realizzare due sinagoghe di media grandezza, ciascuna in un punto diverso della città, anche per assecondare la distribuzione degli ex abitanti del ghetto in mezzo al resto della popolazione romana, e chi invece premeva per realizzare una grande sinagoga nell’area del vecchio quartiere. 

    «Quest’area e quest’ambiente saranno sempre denominati Ghetto», ammoniva il corrispondente da Roma della rivista ebraica triestina Il Corriere israelitico, per sostenere la necessità del decentramento. Ma quella posizione era nettamente minoritaria, come dimostrò il referendum tenutosi nel 1896 fra gli iscritti alla comunità, che diede una vittoria schiacciante ai sostenitori della soluzione opposta. Gli ebrei romani volevano un tempio solenne, imponente, ben visibile dall’esterno. E lo volevano proprio lì, dove i loro antenati erano stati costretti a vivere per più di tre secoli… 

    La posa della prima pietra (dopo il necessario accordo con il Comune) arrivò nel giugno del 1901. Da quel momento nell’intera comunità partì una corsa a raccogliere fondi che coinvolse tutti gli strati della popolazione ebraica (i poveri vollero contribuire con una sottoscrizione a parte, per un ammontare di ottomila lire) per le spese necessarie a realizzare un tempio all’altezza delle aspettative. L’inaugurazione si tenne nel luglio del 1904, pochi giorni dopo la toccante cerimonia religiosa durante la quale i rotoli della Torah su cui pregavano e studiavano da secoli gli ebrei romani furono trasportati, seguiti da una grande folla, dal vecchio al nuovo edificio. Fra le due date si inserì a sorpresa la visita del sovrano Vittorio Emanuele III, che suscitò fra loro scene di vero entusiasmo…

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