Afterlives – letteralmente aldilà – o forse meglio, in questo caso, una seconda vita. Sì perché le opere della mostra “Afterlives: Recovering the Lost Stories of Looted Art”, proposta dal Jewish Museum di New York, hanno avuto due vite: la prima, dalla loro creazione a quando sono state rubate dai nazisti; la seconda, dopo il recupero e la restituzione agli eredi dei legittimi proprietari o l’assegnazione a musei. Esposte opere di Henri Matisse, Paul Cézanne, Pablo Picasso, Marc Chagall e di molti altri grandi artisti che nel loro tempo rivoluzionarono il modo di dipingere. La seconda vita di queste opere, recuperate dopo decenni di difficili ricerche, dimostra il fallimento della soluzione finale perseguita dai nazisti, che oltre allo sterminio del popolo ebraico intendevano cancellare anche la sua vasta produzione artistica.
Sam Sacheroff è il curatore della mostra, lo abbiamo intervistato.
Quale è il messaggio centrale veicolato da questa mostra?
Vogliamo attirare l’attenzione su quanto sia importante lo sforzo compiuto per individuare e restituire le opere rubate. Molte delle opere che esponiamo nelle gallerie sono abbinate alle storie personali degli uomini e delle donne a cui appartenevano originariamente. E sono quelle storie, le storie degli individui e delle loro vite che sono state così tragicamente sconvolte dai nazisti, che vogliamo davvero mettere in primo piano con questa mostra.
Quante sono in totale le opere saccheggiate dai nazisti?
Le opere d’arte rubate dai nazisti durante la guerra sono oltre seicento mila. Si tratta del 20% delle opere d’arte che esistevano in Europa. Ma se consideriamo anche gli oggetti di Judaica, è molto più difficile stimare l’entità del furto. Gran parte degli oggetti trafugati sono stati distrutti. Gli oggetti d’argento, che erano nelle sinagoghe, sono stati fusi. Molti dei libri razziati dalle biblioteche ebraiche sono stati distrutti. Una cifra per tutte. Uno dei centri di raccolta istituiti dopo la guerra ha recuperato due milioni e mezzo di libri. Di certo molti di più sono quelli distrutti. La mostra ricostruisce non solo le circostanze in cui è avvenuto il furto, ma anche il grande lavoro fatto per restituire le opere. Ed è significativo che questa mostra si tenga qui, nella sede del Jewish Museum di New York. Questo è stato uno dei depositi di stoccaggio della Jewish Cultural Reconstruction, nata proprio per restituire gli oggetti d’arte rubati alle comunità ebraiche di tutto il mondo.
Cosa ha spinto i nazisti a saccheggiare sistematicamente il patrimonio culturale ebraico?
Le razzie sono state compiute per diversi fini. In alcuni casi, per la brama di ricchezza dei capi nazisti: molte opere sono state inserite nelle loro collezioni private. In altri casi, le opere rubate sono state rivendute sul mercato internazionale dell’arte e i proventi utilizzati per finanziare la macchina da guerra nazista. Infine, il furto era parte del progetto nazista di soppressione del popolo ebraico: opere, oggetti e libri ebraici sono stati distrutti o allineati negli scaffali degli istituti di ricerca nazisti sulla cosiddetta “questione ebraica”, biblioteche antisemite dedicate allo studio della cultura ebraica con l’obiettivo di distruggerla.
(Marc Chagall, Purim, 1916-17. Philadelphia Museum of Art.)
I nazisti definivano le opere delle avanguardie artistiche degenerate. Così giustificavano le loro razzie. Ma spesso i capolavori pubblicamente additati a simbolo di decadenza venivano appesi dagli stessi predatori nei loro lussuosi salotti.
Un atteggiamento molto ipocrita, che mette in luce quanto improvvisato fosse il progetto ideologico nazista. Le opere sequestrate erano definite “arte degenerata”, e quindi destinate alla distruzione, ma i capi nazisti hanno fatto innumerevoli eccezioni per se stessi. La verità è che il saccheggio delle opere d’arte è stato un furto brutale, animato in gran parte dalla brama di rubare beni culturali per arricchimento personale. In questa mostra, ci sono alcuni esempi che lo dimostrano in modo inequivocabile. “La ragazza in giallo e blu con chitarra”, di Henri Matisse, è stata rubata al gallerista personale dell’artista dai nazisti nell’ambito del progetto di eradicazione dell’arte d’avanguardia. Successivamente però è stata scelta da Hermann Goring, il numero due del regime, per la sua collezione personale. In mostra c’è anche un dipinto di Bernardo Strozzi che fu selezionato da Adolf Hitler per il suo museo privato: per tragica ironia, rappresenta un atto di misericordia. Il titolo è: “Dare da bere agli assetati”.
Dietro ogni opera esposta c’è un intreccio di storie: quella dell’artista che l’ha creata; l’utilizzo che ne hanno fatto i nazisti; come è stata ritrovata. In alcuni casi, mettendo un artista nella lista nera i nazisti hanno ottenuto l’effetto opposto di quello voluto: hanno accresciuto la sua fama. Come nel caso di Otto Freundlich…
Otto Freundlich, a differenza di Matisse o Picasso, non era un artista famoso negli anni ’30. Ha acquisito notorietà quando una sua scultura è stata riprodotta sul catalogo della mostra nazista di arte degenerata che ha avuto luogo a Monaco di Baviera nel 1937. Qui mostriamo un suo lavoro, dal titolo poetico, “l’unità della vita e della morte”. Freundlich era un artista astratto, ed era ebreo. I nazisti ne fecero un simbolo della cosiddetta arte degenerata. Fu costretto a fuggire nei Pirenei nel 1940. Riuscì a nascondersi per tre anni. Poi, però, lui e la moglie furono arrestati, spediti in un campo di concentramento e uccisi.
Al centro dell’area espositiva, campeggia in una teca un quaderno dove, con perfetta calligrafia, sono annotati nomi e date. È il registro del campo di concentramento di Dachau. Perché questa scelta espositiva?
L’esposizione si concentra necessariamente su ciò che è sopravvissuto. Tutte le opere esposte sono opere sopravvissute al trauma della guerra. Ma la mostra non poteva ignorare l’altra faccia della medaglia, le perdite irreparabili casate dal nazismo. Il registro del campo di concentramento di Dachau contiene i nomi dei 3.478 uomini, donne e bambini internati dal 1° luglio del 1944 al 16 aprile del 1945. Solo 11 di loro sono sopravvissuti. Lo abbiamo esposto al centro della mostra, come promemoria di quella tragedia.
In copertina: Bernardo Strozzi, “Un atto di misericordia: dar da bere agli assetati”, 1620 ca.