Una mostra che non parla soltanto di Klimt, ma soprattutto della Vienna della Belle Èpoque, ancora imperiale, mitteleuropea e con una consistente comunità ebraica. L’esposizione Klimt. La Secessione e l’Italia a Palazzo Braschi fino al 27 marzo ritrae una città cosmopolita e all’avanguardia e ripercorre l’intera parabola artistica del pittore e di tutta la sua cerchia. C’è la Vienna del Novecento, con i suoi caffè – “una sorta di club democratici e accessibili a tutti al modico prezzo di una tazzina di caffè”, come scrisse Stefan Zweig – la musica, l’influsso di Freud che schiude le porte dell’inconscio e c’è la città della Secessione, fondata il 3 aprile 1897 all’interno del Künstlerhaus, con i suoi multiformi linguaggi e un unico grido: “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà”.
200 opere tra dipinti, disegni, manifesti d’epoca, sculture, gioielli, porcellane. Un percorso che vuole anche ricordare il rapporto di Klimt con l’Italia dove partecipò con una sala personale alla Biennale di Venezia del 1910. Spuntano cartoline che documentano i viaggi in Italia di Klimt ed è esposta la tela che ritrae Malcesine sul lago di Garda. Tra le opere, la Signora in bianco, Le Amiche, Amalie Zuckerkandl, La sposa, capolavoro incompiuto del 1918 perché Klimt morì di lì a poco, e Ritratto di Signora, trafugato dalla Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza nel 1997 e poi recuperato nel 2019. Tra le sale forse più belle del percorso spicca quella dedicata al Fregio di Beethoven, oggi custodito nel Palazzo della Secessione viennese.
Ma c’è soprattutto lei, La Giuditta, del 1901 dove Klimt ritrae Adele Bloch Bauer nelle vesti dell’eroina ebrea che decapita Oloferne e che poi sarà di nuovo protagonista di un ritratto del 1907, da cui poi è stato tratto il film “The Woman in Gold”. Ci si ferma immobili davanti al quadro che raffigura Adele Bloch Bauer, rapiti dall’espressione sfuggente di una Giuditta sensuale e moderna e ci si chiede chi fosse la musa di Gustav Klimt. E anche cosa ci racconti dell’ebraismo viennese di inizio ‘900. Lo abbiamo chiesto a Rita Monaldi e Francesco Sorti, scrittori di fama internazionale, ultima fatica Dante di Shakespeare per Solferino, primo romanzo di una promettente trilogia, romani di nascita ma viennesi d’adozione. “Collezionista, mecenate, intellettuale engagée e finanziatrice di movimenti politici, musa di artisti e femme fatale, Adele Bloch Bauer è una figura di rilevanza più europea che austriaca. Non a caso è stata ritratta in un romanzo dalla nota scrittrice e giornalista francese Valèrie Trierweiler, compagna di François Hollande. I testimoni dell’epoca ce la dipingono tormentata e affascinante, arrogante ma elegantissima, alla perenne ricerca di avventure intellettuali, di salute cagionevole ma fumatrice accanita, esile ma non priva di sensualità. Non è un caso che sia l’unica donna immortalata per due volte da Klimt, tra l’altro con particolare opulenza”.
Da dove veniva Adele? Di chi era figlia? “Veniva da una ricca famiglia di banchieri, che le garantì l’accesso al più raffinato milieu culturale viennese, Mahler, Strauss, Zweig e molti altri, e ad un matrimonio prestigioso con l’industriale Ferdinand Bloch. L’unione, pericolosamente acerba, lei 17 anni, lui 34, e rimasta senza figli, resistette miracolosamente alle tentazioni a cui si era esposti nella disinvolta società viennese, il paradigma, come insegna il Pipistrello di Strauss, era la “coppia aperta”. Poiché però Klimt raccoglieva amanti e spargeva figli a volontà perfino tra i suoi mecenati, ed è saltato fuori in un’asta perfino un misterioso anello, resterà la domanda maliziosa se con Adele ci sia stato del tenero. Oltre alla pittura, la passione di Adele per le porcellane diede vita ad una delle più straordinarie raccolte dell’epoca, poi cannibalizzata dagli espropri nazisti”.
Ma Monaldi e Sorti, pur vivendo a Vienna, ci raccontano un particolare non indifferente riguardo alla mostra di Roma. “Adele fu ovviamente in stretto contatto anche con l’altra grande salonnière del suo tempo, Amalie Zuckerkandl (il cui ritratto capeggia nell’esposizione a Palazzo Braschi, verrebbe da dire che le due si incontrano nei corridoi della mostra ndr), e sovvenzionò generosamente non solo Klimt, ma anche i movimenti socialisti”.
Quello che vediamo, però, in Giuditta è una parabola fuggente. “La seconda parte della vita di Adele – spiegano Monaldi e Sorti – trascorsa prima in un castello in Cechia e poi nel lussuoso palazzo viennese di Elisabethstrasse, la tragica morte per meningite nel 1925 e la fine drammatica del marito perseguitato dall’antisemitismo, spogliato di tutte le opere d’arte e morto in miseria nel 1945 a Parigi, completano questo ritratto femminile straordinariamente ricco, sospeso tra gli ultimi splendori d’età asburgica e le tragedie del nostro tempo”.
Viene allora da chiedersi che fine abbia fatto quella società cosmopolita viennese di cui la comunità ebraica, circa 200mila persone, era la quintessenza. Per Monaldi e Sorti non ci sono dubbi. “Se non fosse esistita la grande borghesia ebraica di cui Adele è esponente par excellence, non avremmo avuto neppure una virgola della Vienna fin de siècle con tutta la sua ricchezza artistica e letteraria. Solo l’Olocausto è riuscito ad azzerare questa straordinaria stagione umana e culturale che nessuno sforzo successivo è riuscito ad eguagliare. La Vienna moderna finge di snobbare la sua grande stagione artistica ebraica e mitteleuropea: a Stefan Zweig è dedicata soltanto una piazzetta di periferia, a Karl Kraus un’anonima stradina. Ma sotto sotto, ci si sbrana per i tesori di quel passato: i due ritratti klimtiani di Adele sono stati al centro di un’epica contesa legale tra lo Stato austriaco e l’ultima nipote dei Bloch-Bauer, l’americana Maria Altmann, per poi finire all’asta a cifre stellari, il secondo ritratto è andato a Oprah Winfrey, che lo ha infine rivenduto in Cina per 150 milioni di dollari”. E come non ricordare “Woman in Gold” del 2016 “dove si ripercorre – con parecchie licenze avvertono Monaldi e Sorti– il thriller storico-politico di Adele, del marito e delle due magiche tele di Klimt”.