Un omone alto due metri, l’altissimo poeta lo sfottevano gli amici, che amava la vita dispendiosa, ma anche prendere in giro il potere attraverso le rime in romanesco. 150 anni fa, esattamente il 26 ottobre 1871, nasceva nella capitale Carlo Alberto Camillo Salustri, in arte Trilussa. E, come il suo predecessore Giuseppe Gioacchino Belli, ebbe rapporti con la comunità ebraica che finì in sonetti e prefazioni dei suoi libri. Non sempre “politically correct” come quando, per pagare le spese incombenti, ricorse al prestito da Isacco di David Spizzichino e, non avendo saldato il debito, forgiò un sonetto in cui con sarcasmo scriveva: “se vojo fa’ na vita da cristiano, bisogna che ricorra da un giudio!”. Ma soprattutto avendo Isacco richiesto indietro il denaro con gli interessi e mandandogli una lettera minacciosa, finì burlato dallo stesso poeta che pubblicò la missiva come prefazione al libro di sonetti le cui vendite gli servirono per saldare il debito…
Lo strappo ci fu, ma Trilussa era uno spendaccione più che un antisemita e riuscì a riscattarsi nel periodo più buio della storia, quello delle leggi razziste. Lo sottolinea un saggio di Lucio Felici, Trilussa e il razzismo, che spiega come il poeta, allergico a qualsiasi potere, non credeva al mito della razza e forgiò un sonetto nel ’40, dal titolo L’affare de la razza, apparso su La voce d’Italia all’estero nel ’41. Le rime sono dedicate al gatto di Trilussa, il famoso Ajò, nome che il poeta aveva preso in prestito dall’amico avvocato romano Ugo Ayò. Trilussa amava profondamente Ajò, un gattone rosso, che lo aspettava a casa e lo sentiva arrivare e lo continuò a chiamare così negli anni sfidando le regole del regime.
Nel sonetto, Trilussa decide di prendere in giro i decreti e le circolari per aggirare le leggi sulla razza con cui gli ebrei “discriminati” potevano ottenere alcuni dei diritti negati ad altri correligionari. Per esempio, bastava dichiarare di essere figlio di un adulterio della madre con un uomo ariano o altri espedienti simili per ottenere dei vantaggi. Trilussa sfotte questi sotterfugi e ci regala delle rime in cui più che prendersela con le scappatoie denuncia le follie fasciste.
Del resto, che Trilussa fosse un fermo oppositore della dittatura è testimoniato dal fatto che non prese mai la tessera del partito e gli fu negata la nomina ad Accademico d’Italia. In un altro sonetto degli anni del regime si lamenta di aver paura anche dell’“Ombra mia, me pare più che l’ombra de me stesso, quella de quarcheduno che me spia”. Alla fine della guerra, Trilussa, sempre in bolletta, viene nominato senatore a vita nel 1950, paradossalmente a 21 giorni dalla sua morte, avvenuta il 21 dicembre. Finalmente a settantanove anni poteva vivere tranquillo con una rendita certa, ma era troppo tardi e lo stesso poeta, con la sua immancabile ironia, si autodefinì senatore a morte.
L’Affare della Razza
Ci avevo un gatto e lo chiamavo Ajò;
ma, dato ch’era un nome un po’ giudio,
agnedi da un prefetto amico mio
po’ domannaje se potevo o no:
volevo sta’ tranquillo, tantoppiù
ch’ero disposto de chiamallo Ajù.
– Bisognerà studià – disse er prefetto –
la vera provenienza de la madre… –
Dico: – La madre è un’àngora, ma er padre
era siamese e bazzicava er Ghetto;
er gatto mio, però, sarebbe nato
tre mesi doppo a casa der Curato.
– Se veramente ciai ‘ste prove in mano,
– me rispose l’amico – se fa presto.
La posizzione è chiara.:.- E detto questo
firmò una carta e me lo fece ariano.
– Però – me disse – pe’ tranquillità,
è forse mejo che lo chiami Ajà.