Prima di punire Sodoma e Gomorra, l’Eterno lo rivela ad Avraham: “E l’Eterno disse: posso tener celato ad Avraham quello che sto per fare, quando Avraham è destinato a diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra? Io l’ho prediligo perché comanda ai suoi figli e al suo casato dopo di sé, che s’attengano alla via dell’Eterno di praticare tzedakà e mishpàt […] (Bereshìt, 18:17-19).
Rashì (Troyes, 104-1105) commenta che l’Eterno considerava cosa appropriata anticipare ad Avraham quello che stava per fare, perché avendogli promesso Eretz Israel, non voleva distruggere delle città che gli appartenevano senza farglielo sapere. Questa notizia fece sì che Avraham iniziasse un “negoziato” con l’Eterno per cercare di salvare queste città dalla distruzione. Tutto ciò, nonostante che Avraham sapesse bene che gli abitanti di Sodoma e di Gomorra vivessero una vita immorale. Non avendo trovato almeno dieci giusti da salvare, furono salvati solo il nipote Lot e la sua famiglia.
R. Isser Zalman Meltzer (Belarus, 1870-1953, Gerusalemme) capo della Yeshivat Etz Chayim a Yerushalaim, citato in Divrè Aggadà che raccoglie le derashòt di rav Elyashiv (p. 38), si sofferma sulle parole tzedakà e mishpàt, facendo notare che in altri passi delle Scritture la parola mishpàt precede la parola tzedakà. Il profeta Yeshaya’ disse: “Osservate mishpàt e fate tzedakà (Isaia, 56:1). Nel Midràsh (Devarìm Rabbà, 5:3) viene citato il versetto nel quale è scritto che “David faceva mishpàt e tzedakà a tutto il suo popolo (II Shemuel, 8:15)”. David, nella sua carica regale, faceva anche il giudice ed emetteva il verdetto a favore di colui che aveva ragione. Se la controparte non era in grado di pagare, David pagava di tasca sua. Questa era quindi prima di tutto giustizia (mishpàt) e poi beneficienza (tzedakà).
R. Meltzer aggiunge che vi è un modo di pensare comune secondo cui è disonesto solo colui che prende dagli altri quello che non gli appartiene. Se qualcuno non si impossessa della proprietà degli altri, né dà agli altri nulla di suo, è però considerato una persona per bene anche se qualcuno muore di fame. Questo, afferma r. Meltzer, era il modo di pensare della gente di Sodoma, come detto nei Pirkè Avòt: “Quello che è mio è mio, quello che è tuo è tuo” (Massime dei padri, 5:10).
La tzedakà in situazioni normali è un atto volontario di far del bene, di beneficienza. Ma in situazioni di emergenza quando il prossimo è in pericolo, è un dovere legale. Questo è insegnato dalla mitzvà della Torà di “Non stare fermo quando il tuo prossimo è in pericolo” (lett. “Non stare fermo davanti al sangue del tuo prossimo (Vaykrà, 19:16)”.
Riguardo a Sodoma l’Eterno disse: “Il grido di dolore contro Sodoma e Gomorra è così grande e la loro colpa così grave” (Bereshìt, 18: 20). E anche il profeta Yechezkèl diceva: “Ecco, questo fu il peccato di tua sorella Sòdoma: essa e le sue figlie avevano superbia, ingordigia, ozio indolente, ma non stesero la mano al povero e all’indigente” (Ezechiele, 16:49).
[Nella nostra epoca una filosofia simile a quella di Sodoma fu enunciata in America da Ayn Rand (Pietroburgo, 1905-1982, New York). In etica, Rand sostenne il principio dell’egoismo razionale ed etico, come principio morale guida. L’individuo deve “esistere per se stesso, senza sacrificarsi agli altri né sacrificare gli altri a se stesso”].
La Torà ci insegna il contrario. Nella nostra parashà, la parola tzedakà precede la parola mishpàt per insegnare che Avraham aveva un’etica contraria a quella della gente di Sodoma. Avraham faceva tzedakà e mishpàt e comandava ai suoi discendenti di fare tzedakà, perché per gli ebrei, fare il bene agli altri è una cosa obbligatoria: tzedakà è mishpàt, la beneficienza è giustizia.