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    16 ottobre, le colpe degli italiani – L’intervista

    La commemorazione della razzia e della deportazione del ghetto di Roma, il 16 ottobre del ’43, non può esimersi dallo stabilire se, oltre alla barbarie nazista, ci furono anche colpe attribuibili agli italiani e al governo Badoglio che dal 25 luglio ’43, giorno della caduta del fascismo, fino all’8 settembre, data dell’armistizio, fu responsabile del potere esecutivo in Italia. Ne parliamo con Gabriella Yael Franzone, coordinatrice del Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma, autrice di un saggio “La legislazione riparatoria e lo stato giuridico degli ebrei nell’Italia repubblicana. Note sull’abrogazione delle norme antiebraiche”.

     

    Che cosa non è stato fatto tra il 25 luglio e il 16 ottobre del ‘43?

    La cosa stupefacente che non accade proprio nulla nel territorio che non si trovava già sotto il controllo alleato. Cambia qualcosa, infatti, solo in Sicilia: il primo testo che mira a eliminare le leggi della vergogna viene pubblicato sulla Gazzetta n. 1 del governo militare alleato dei territori occupati. Si tratta del proclama n. 7 che abroga qualsiasi legge operante discriminazione contro qualsiasi persona per motivi legati a razza, colore della pelle, fede. Ma questo accade dove c’erano già gli alleati, mentre nel resto del territorio dopo il 25 luglio non accade nulla. Riporto la testimonianza del partigiano ebreo Michele Ascoli che, quando a Roma e particolarmente a Portico d’Ottavia dopo il 25 luglio ci si rallegrava della caduta del fascismo, fu l’unico a spaventarsi; e i fatti successivi gli diedero purtroppo ragione.  

     

    Siamo al 25 luglio, capo del governo è Badoglio, sopravvissuto alla commissione d’inchiesta su Caporetto…

    Personaggio già controverso, Badoglio non fa praticamente nulla. L’Italia viene di fatto costretta all’abrogazione delle norme antiebraiche perché il 29 settembre ’43 a Malta, alla firma del cosiddetto armistizio lungo, Badoglio si vede impegnato dall’articolo 31 dell’armistizio a smantellarle. Sino ad allora non lo si era fatto. Nei giorni successivi al 25 luglio, infatti, il governo Badoglio procede all’abrogazione di buona parte della legislazione fascista, ma non muove paglia sulle leggi antiebraiche. Felice Mill Colorni, su Critica Liberale, parla a questo proposito di “omissione stupefacente”. Nei 45 giorni del governo badogliano non viene presa nessuna misura significativa in favore degli ebrei per limitare i danni fatti o per arginare i rischi che si potevano prospettare. Viene lasciata persino in vita la stragrande parte delle norme antiebraiche e con essa persino la Direzione generale della demografia e la razza, la famigerata “Demorazza” istituita presso il Ministero dell’Interno. Presidente del tribunale della razza era Gaetano Azzariti, che viene nominato Ministro della Giustizia proprio del primo governo Badoglio e poi, dal 1957 al 1961, Presidente della Corte costituzionale della Repubblica: una continuità di apparato che desta perplessità.

     

    Perché non si fa nulla? C’è un’intromissione della Chiesa per non abrogare le leggi antiebraiche?

    Nell’agosto 1943, il gesuita Pietro Tacchi Venturi interagisce – su mandato dell’allora Segretario di Stato, cardinale Luigi Maglione – con l’esecutivo Badoglio. Il problema della Santa Sede era quello del riconoscimento dei matrimoni misti avvenuti dopo l’ottobre del ’38, che, a rigor di termini, avrebbero dovuto essere considerati illegittimi. Il Vaticano voleva ottenere il riconoscimento di questi matrimoni. Nell’intervenire a questo scopo, padre Tacchi Venturi sottolinea che nella legislazione razziale ci sono misure anche meritevoli di conferma “secondo i principi e le tradizioni della chiesa cattolica”. Un intervento, questo, molto documentato e incontrovertibile dal punto di vista storico.   

     

    Tacchi Venturi può essere preso come la punta di attacco di un pensiero che ha dietro anche il papa del silenzio, ovvero Pio XII?

    È difficile ragionare sulle riflessioni intime del Papa. Quello che è certo è che la sua Segreteria di Stato riteneva che parte della normativa antiebraica fosse costituita da misure ragionevoli. 

     

    Che cosa comporta la mancata cancellazione delle leggi razziste rispetto al 16 ottobre?

    La questione della cancellazione delle registrazioni anagrafiche degli ebrei presso le questure e i comuni non viene minimamente affrontata da Badoglio. Pietro Calamandrei, fondatore del partito d’Azione ndr, nel suo diario a inizio agosto ’43 si pone il problema. Calamandrei ritiene che le leggi antiebraiche, ingiuste e vergognose, vadano abrogate anche solo per la loro immoralità; ma annota che nessuno parla, in quel momento, di una loro abrogazione, né – men che meno – si attiva per attuarla. Calamandrei ne trae la conclusione che molti di coloro che apparentemente si rallegravano della caduta del fascismo, in realtà fossero rimasti fascisti, filofascisti o filonazisti. Pochissimi, dopo il 25 luglio chiedono apertamente l’eliminazione della normativa razzista; i soli a farlo sono due filosofi, Antonio Banfi e Guido De Ruggiero, e lo storico del diritto Vincenzo Arangio Ruiz. Cosa comporta la mancata cancellazione? Che nel momento in cui si dovette organizzare la deportazione, si avevano liste, elenchi tratti dalle dichiarazioni di razza presso il ministero dell’interno, presso le questure e le prefetture. E questo agevolò la deportazione. Gli studi effettuati sembrano confermare l’ipotesi che in realtà i nazisti abbiamo utilizzato la documentazione del ministero dell’Interno: gli ebrei che avevano cambiato domicilio e lo avevano comunicato – perché obbligati a farlo dalla normativa vigente – alla Pubblica amministrazione, ma non anche agli uffici della Comunità ebraica, sono stati infatti prelevati dai nazisti al loro nuovo indirizzo e non a quello che sarebbe risultato dagli elenchi comunitari.

     

    Tra il momento in cui gli ebrei consegnano i 50 kg d’oro e la deportazione, si poteva fare qualcosa? Quanto ha pesato il silenzio del papa?

    Dalla richiesta dell’oro, fine settembre ’43, ci sono una serie di segnali preoccupanti che portano al 16 ottobre: segnali come la razzia dei libri della biblioteca della Comunità e di quella del Collegio rabbinico, una parte viene portata via nella prima metà di ottobre ’43, un’altra parte a dicembre. Tra la richiesta dell’oro e la prima deportazione non passa molto tempo, soltanto due settimane. Probabilmente da parte ebraica c’è una sottovalutazione del rischio. Quando Ugo Foà, Presidente della comunità ebraica, si rende conto che i nazisti si stanno organizzando per razziare i volumi, si rivolge a due ministeri fascisti: informa la Direzione generale delle Biblioteche presso il Ministero dell’Educazione nazionale e le Direzioni generali dei Culti, della Pubblica sicurezza e dell’Amministrazione civile presso il Ministero dell’Interno; confida, evidentemente, nell’intervento delle autorità italiane, spera – o vuole sperare – che facciano qualcosa. Si può parlare di sottovalutazione del pericolo ed eccessiva fiducia? Ugo Foà, certo, era stato fascista; ma, soprattutto, aveva senso dello Stato e voleva sperare sino all’ultimo che lo Stato in cui si era riconosciuto lo tutelasse.

    Riguardo al papa, è difficile dire se abbia sottostimato il pericolo, o abbia ritenuto che una sua presa di posizione avrebbe messo più a rischio gli ebrei; oppure, infine, se possa aver ritenuto che avrebbe potuto mettere a rischio la sua stessa vita e non si sia sentito di farlo.

     

    Non ci sono documenti che testimoniano che il papa potesse sapere di una possibile deportazione?

    Paradossalmente, c’è un telegramma del console tedesco Moellhausen che cerca di ottenere da Berlino di non deportare gli ebrei; in questo è supportato dal comando tedesco a Roma, che ritiene di non poter sottrarre uomini alla guerra per destinarli ad attività finalizzate alla deportazione e che gli ebrei avrebbero dovuto essere utilizzati per rinforzare le difese della città. Per strano che possa sembrare, persino qualche nazista cerca di prendere posizione contro la deportazione; ma il Papa non lo fa. Abbiamo, però, un dato certo: la metà circa degli ebrei che si sono salvati a Roma è stata ospitata e assistita presso strutture religiose, parrocchie, conventi, monasteri. Questo è un dato di fatto; ma il Papa ne era informato? Fu lui a volerlo, o, almeno, a tollerarlo? Non possiamo saperlo. A essere informati e in qualche modo coinvolti sono, con tutta probabilità, monsignor Montini, il futuro Paolo VI, e monsignor Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, che certamente si adoprano per salvare gli ebrei. Quanto a Pio XII, non ci possiamo pronunciare: non possiamo dire che abbia fatto qualcosa in favore degli ebrei, ma certo non possiamo nemmeno radicalmente escluderlo. In estrema sintesi: di una sua effettiva attività non abbiamo prove. Quello che c’è è soltanto un assordante silenzio.  

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