La giornata in cui si commemora l’attentato del 9 ottobre ’82 è sempre un momento molto doloroso per gli ebrei di Roma. Ogni anno, quando le famiglie Gaj e Tachè, assieme alle autorità, pongono la corona sulla lapide fuori alla sinagoga dove i terroristi palestinesi uccisero il piccolo Stefano e ferirono 40 fedeli all’uscita dell’edificio, il dolore torna vivo come fosse accaduto ieri. Ma c’è un sentimento che è cresciuto negli anni, e si tratta di quello che vorrebbe finalmente giustizia e verità. C’è un recente episodio che spiega come questo stato d’animo, a quasi quarant’anni dall’attentato, cresca ogni giorno nella comunità, forse perché più ci si allontana temporalmente del 9 ottobre ‘82, più questa giornata si avvicina e entra nella memoria collettiva degli ebrei di Roma, proprio come il 16 ottobre del ‘43.
Oggi a largo Stefano Gaj Tachè molti cittadini, giunti per partecipare alla commemorazione, hanno potuto notare che sulla targa dell’intitolazione della via qualcuno con un adesivo ha specificato che il piccolo Stefano è stato vittima del terrorismo palestinese. Il largo fu titolato a Stefano nel 2007 grazie all’allora sindaco Walter Veltroni. Inizialmente il Comune voleva dedicare la via a Stefano in un’altra zona di Roma: «Noi ci siamo opposti immediatamente, perché la strada dedicata a mio fratello doveva essere proprio qui accanto alla sinagoga – ricorda Gady Tachè -. La richiesta di tutta la comunità fu quella di scrivere sulla targa “Stefano Gaj Tachè, vittima del terrorismo palestinese”. Ma così non fu, e ci fu detto che era meglio scrivere “vittima del terrorismo” e basta. Pur apprezzando l’iniziativa di Veltroni di dedicare la strada a mio fratello, siamo rimasti colpiti e ci siamo anche chiesti perché non specificare la matrice palestinese dell’attentato. Insomma si tratta del politically correct? Forse si, poi però arriva il momento in cui si vogliono chiamare le cose con il loro nome». Così un gruppo di ragazzi hanno deciso di mettere l’adesivo, specificando che si trattò di terrorismo palestinese. «Mi sembra un gesto corretto, una precisazione storica dovuta, soprattutto ai giovani. – continua Gady – Come ho già detto in varie occasioni, sono proprio i giovani a dover ricordare, a dover studiare a scuola ciò che è accaduto. Non c’è una vera e propria educazione, neanche a scuola ebraica, su questa vicenda. Si è un po’ restii a parlare con i bambini di questa storia, mentre le insegnanti sanno trovare parole adatte per raccontare anche gli aventi più dolorosi e tragici. Come le insegnanti della scuola ebraica già fanno sulla deportazione degli ebrei di Roma del 16 ottobre 1943. Il 9 ottobre merita una pagina di storia, perché è la nostra storia, e se non la ricordiamo noi, chi lo farà?».
Shalom ha pubblicato un’intervista agli avvocati Del Monte e Di Porto, a cui la Presidente Ruth Dureghello ha chiesto di acquisire tutti gli atti del processo: e sembra che siano molte le cose che tutt’oggi non tornano e le domande che restano senza risposta. Ma soprattutto nessun colpevole ha mai pagato. «Io vorrei dire alle istituzioni che se all’epoca non è mai stata fatta giustizia, probabilmente perché le indagini sono state fatte, chissà se volutamente, in modo superficiale, oggi non ci sono più scuse. Dobbiamo avere e chiedere giustizia. Nessuno ha mai fatto neanche un giorno di carcere per l’attentato. Mi chiedo, Al Zomar, l’unico terrorista identificato e condannato, è fuggito, e non è stato mai estradato in Italia, ma gli altri terroristi? Chi erano? Dove sono andati? E’ possibile che la giustizia italiana, che va a prendersi giustamente ovunque i criminali, i brigatisti, non si muova adeguatamente per arrestare i terroristi palestinesi che hanno colpito quel giorno Roma e l’Italia? Vogliamo verità e giustizia, e non ci arrendiamo perché sono passati quasi quarant’anni, anzi, faremo sentire sempre di più la nostra voce”.