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    Commento alla Torà. Parashà di Kedoshìm: la riprensione affettuosa

    Nel Midràsh (Vaykrà Rabbà, 24:5) Rabbi Chiyà dice che questa parashà fu insegnata da Moshè agli
    israeliti di fronte a tutto il popolo perché comprende la maggior parte dei
    principi della Torà.

                    Nella parashà vi è una sequenza di mitzvòt nei confronti del prossimo: “Non
    odiare il tuo fratello in cuor tuo; ammonisci il tuo prossimo e non renderti
    colpevole per causa sua; non vendicarti e non conservare rancore verso i figli
    del tuo popolo; e vorrai il bene del prossimo come per te stesso, Io sono
    l’Eterno”(Vaykrà, 19:17-19). Leggendo questi versetti è evidente che non si
    tratta di regole convenzionali emesse solo per il bene della società, ma di mitzvòt comandate dall’Eterno. 

                    R. Ya’akòv Kamenetsky (Lituania, 1891-1986, Baltimora), che dopo
    essere arrivato in America dall’Europa, fu nominato capo della yeshivà Torà Ve-Da’at a Brooklyn, nella
    sua opera di commenti alla Torà intitolata Emèt
    le-Ya’akòv (pp. 381-384) pone la domanda se la mitzvà di ammonire il prossimo faccia
    parte delle mitzvòt nei confronti
    dell’Eterno o di quelle nei confronti del prossimo. Egli conclude che dal
    contesto è evidente che sia una mitzvà nei
    confronti del prossimo. Alla base della mitzvà
    di ammonire il prossimo vi è il principio che colui che ha commesso una
    trasgressione deve avere l’impressione che chi lo ammonisce gli sta facendo un
    grande favore, come qualcuno che gli restituisce una cosa perduta. R.
    Kamenetzky aggiunge che comunemente si pensa che la mitzvà di ammonire il prossimo consista nel fatto che dobbiamo
    essere “le guardie” del Santo Benedetto. Tuttavia questo concetto è sbagliato
    perché se così fosse si potrebbe ammonire il prossimo anche se così facendo lo
    si mettesse pubblicamente in imbarazzo. E invece non è così, perché quando
    nella Torà è scritto di ammonire il prossimo che ha commesso una trasgressione,
    segue l’avvertimento di farlo senza peccare. Infatti le parole “Non renderti
    colpevole per causa sua” hanno un doppio significato: quello di ammonire il
    prossimo per non mostrare che si è consenzienti e rendersi corresponsabile
    della sua colpa; e quello di non peccare nell’ammonire il prossimo
    imbarazzandolo. 

                    R.
    Simcha Zissel Ziv Broide di Kelm (Lituania, 1824-1898), uno dei principali discepoli di R. Israel Salanter,
    fondatore della scuola di Mussar,
    cita appunto i maestri del Talmud (Bavà
    Metzià, 31a) che affermano che non bisogna limitarsi ad ammonire il
    prossimo una volta sola e arrendersi al primo rifiuto. Egli afferma che
    ammonendo il prossimo bruscamente si imbarazzerebbe il prossimo e non si
    otterrebbe alcun risultato. Pertanto è opportuno spezzettare le ammonizioni in
    tante piccole parti e farlo in modo graduale.

                    Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Hilkhòt De’òt, 6:7) scrive che chi ammonisce il prossimo deve farlo
    privatamente parlando in modo pacato, dicendo che sta parlando a fin di bene.
    Chi ammonisce diventa esente dall’obbligo di farlo quando il trasgressore dopo
    varie ammonizioni rifiuta di ascoltare e minaccia di passare ai fatti.

                    R. Moisè Capriles nella sua parafrasi delle Hilkhòt De’òt del Maimonide intitolata  “Trattato
    Rituale–Morale–Toscano del Maimonide
    ” (Venezia, Stamperia Ventura qu.
    Isach Fua, 1790) scrive: “Rilevandosi che l’amico è mal istradato, che va in
    rovina per cattiva condotta, è un dovere preciso d’illuminarlo facendogli
    constare il suo errore, suggerendogli in appresso in modo da tenersi per
    rimettersi in sistema. Tanta dev’essere la fraterna correzione, tanto
    raccomandata da Dio nel Levitico (Cap. 19, ver. 17). La riprensione, tanto pei
    delitti civili, che per li criminali dovrà farsi affettuosamente, custodendo il
    buon nome di quegli a cui essa è diretta, tirandolo in disparte, ed
    assicurandolo, che altra mira non si ha, che il perpetuare ed il migliorare la
    condizione di lui. Se la parlata fa colpo, e produce quell’effetto, al quale
    principalmente rendeva, non rimane più che bramare. Quando poi s’incontra in
    duro, conviene ancora replicar gli assalti, e non perdersi mai speranza fino a
    tanto che il malfattor pertinace dando delle busse al riprensore, gli dicesse
    prendi la mancia della tua pedanteria. Quando egli poi, che avendo l’abilità e
    l’autorità di rimettere in buon sentiere gli sviati, gli trascurasse
    lasciandoli in balia di se stessi, sopra d’esso lui caderà il flagello, come
    principal delinquente”. 

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