Domani alla Casa Bianca il nuovo Naftali Bennett incontrerà per la prima volta nel suo ruolo di Primo Ministro israeliano il presidente degli Stati Uniti; e Joe Biden per la prima volta vedrà da presidente un primo ministro israeliano. Si tratta insomma di un incontro importante, che in teoria potrebbe aprire un’epoca nuova nei rapporti fra i due paesi. L’ultima volta che un primo ministro israeliano aveva incontrato un presidente americano, si trattava di Benjamin Netanyahu e di Donald Trump: è passato un anno, ma non solo le due amministrazioni bensì anche i due paesi sono molto cambiati. Ma non è affatto detto che il cambiamento sia andato nella direzione del meglio, o anche solo degli interessi israeliani.
Di fatto il momento in cui avviene questo incontro non è certo facile. Biden aveva già da un paio di mesi concluso la proverbiale “luna di miele” dei nuovi presidenti: la sua popolarità era scesa ben sotto i livelli dei suoi predecessori e c’erano seri dubbi sulla sua capacità di leadership. Ma poi è arrivata la catastrofe dell’Afghanistan: non tanto il fatto di abbandonare senza condizioni un paese per cui gli Stati Uniti avevano speso migliaia di morti e molti miliardi di dollari, ma il modo disordinato come una rotta militare in cui questo è accaduto, lasciandosi dietro decine di migliaia di cittadini americani, collaboratori locali, materiali militari preziosi e avanzati, con la gente che all’aeroporto cede bambini agli sconosciuti per sottrarli alla catastrofe o si aggrappa ai carrelli degli aerei in decollo pur di non farsi prendere dai talebani. E soprattutto con la confusione, l’ipocrisia, le menzogne vere e proprie di un presidente incapace anche di ammettere apertamente gli errori.
E sono scene destinate a ripetersi nei prossimi giorni, magari con l’incubo alla Carter di una presa di ostaggi americani. Bennett non ha una situazione così tragica cui fare fronte, ma è chiaro che i suoi margini di manovra nella politica di sicurezza sono molto limitati: non ha risposto ai missili provenienti dal Libano né alle aggressioni iraniane contro le navi americane; non può reagire contro le aggressioni che vengono da Gaza se non nei limiti della routine; ha sospeso costruzioni e nuove infrastrutture in Giudea e Samaria senza poter rispondere adeguatamente alla lenta ma continua presa del territorio della zona C da parte dell’Autorità Palestinese. Questo deriva dall’eterogeneità della sua maggioranza, che comprende l’estrema sinistra di Meretz e gli islamisti di Bala’am, ben decisi a bloccare l’autodifesa militare di Israele. Sui temi di sicurezza ci sono screzi continui nella maggioranza: l’ultimo è avvenuto nei giorni scorsi quando il dirigente del partito più forte, Yair Lapid, ha ricominciato a parlare dei due stati come obiettivo della sua gestione del Ministero degli Esteri; ed è toccato ad Ayelet Shaked, compagna di partito di Bennett, di bloccarlo con una dichiarazione di totale indisponibilità, fino alla minaccia di uscire dal governo.
Di che cosa parleranno dunque alla Casa Bianca i due leader così in difficoltà? E’ chiaro che Bennett cercherà di convincere Biden ad abbandonare il progetto di un accordo con gli ayatollah e a prendere atto che ormai l’Iran è vicinissimo alla costruzione della bomba atomica, per cui è necessario un intervento molto risoluto sul piano diplomatico e, se – come è probabile – questo non bastasse, anche su quello militare. Ma è altrettanto chiaro che Biden non accetterà di rovesciare un punto fondamentale del suo programma di politica estera, perché questa sarebbe una nuova disastrosa sconfitta per lui e anche perché l’uomo è ostinato, incapace di rinunciare alla sue visione ideologiche di fronte alla smentita dei fatti, come si è visto anche nel pasticcio afgano. Biden chiederà a Bennett di prendere impegni sul ritorno alla vecchia liturgia delle trattative di pace promossa dagli Usa ai tempi di Kerry, Obama e anche prima.
Bennett magari potrà compiere qualche “gesto di buona volontà” come si diceva a quei tempi; ma è chiaro che sul fronte palestinista non ci sono interlocutori se non i terroristi e che “l’autunno del patriarca” del vecchio dittatore Mohamed Abbas impedisce ogni iniziativa anche formale. Bennett poi, per non perdere del tutto la sua base elettorale, non può certo prendere la bandiera della cessioni territoriali all’Autorità Palestinese. Anche la riapertura del consolato americano a Gerusalemme, di fatto la rappresentanza degli Usa verso l’Autorità Palestinese, stranissimo caso diplomatico di una rappresentanza nei confronti di uno stato insistente che ha sede nel territorio di un altro stato, cui l’amministrazione Biden tiene molto e che la grande maggioranza degli israeliani e dei loro politici non vuole, rischia di essere un ostacolo troppo grande e di essere rimandato a un’occasione più favorevole.
E’ probabile dunque che il senso dell’incontro fra i due leader si limiterà proprio al fatto che l’incontro ci sia stato, che Israele continua a essere un fedele alleato degli Usa, sia pure nelle difficoltà del momento, e che gli Stati Uniti dichiarano di essere i garanti della sicurezza di Israele. E soprattutto che Biden potrà mostrare di non essere solo chiuso nell’incubo dell’Afghanistan e Bennett di iniziare ad avere una statura internazionale. E’ ragionevole anche pensare che i due governanti si scambieranno idee sull’epidemia, dato che i due paesi affrontano entrambi un momento difficile su questo tema. E poi ci saranno accordi parziali, “atti di buona volontà”, dichiarazioni altisonanti. La politica è fatta anche di questa cose. E magari, nella migliore delle ipotesi, Bennett potrà accumulare qualche credito nei confronti di un’amministrazione certamente non molto amica di Israele, per aver fatto atto di presenza e di amicizia in un momento così difficile. Il che per Israele può certamente essere utile.