“Condanno in via «assoluta» le leggi razziali ma Mussolini è stato all’inizio fautore di una rivoluzione sociale”. Ovvero “Ha creato le case popolari, le pensioni, l’assistenza all’infanzia, l’assistenza alle donne, le bonifiche, l’industrializzazione, la grande industria della cinematografia con la costruzione di Cinecittà»: parola di Ninò Spirlì, governatore della Calabria (dopo la prematura scomparsa di Jole Santelli) e oggi candidato a vice in ticket con il forzista Roberto Occhiuto alle prossime regionali. Giornalista, scrittore, devoto alla Madonna di Lourdes, Spirlì è anche un grande esperto di cucina. Forse lo è molto meno di storia che non ha coltivato abbastanza troppo preso dalla politica e dai fornelli. Nessun storico oggi, dopo decenni di studi, si sentirebbe di avvalorare quello che Spirlì esprime con tanta disinvoltura e cioè che Mussolini creò un welfare ante litteram per gli italiani. L’Istituto pensionistico, per esempio, che viene attualmente sbandierato dai nostalgici come Spirli, non lo creò Mussolini. Ma la Previdenza esisteva fin dal 1895. Mussolini si preoccupò solo di ampliare e di mettere sotto controllo un settore dell’apparato statale così importante. E nel 1933 la Cassa Nazionale venne trasformata in “Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale”, cioè in un gran carrozzone con un superdirettore nominato dal Duce. Lo scopo era dare lauti stipendi ai dirigenti fascisti e soldi a vari enti vicini al regime. Per i pensionati italiani con il fascismo – a meno che non fossero gerarchi o gerarchetti – non vi fu un salto di qualità. Al contrario. Tutto peggiorò con la guerra. Per le donne invece andò peggio molto peggio fin dalla fine degli anni Venti. Non solo l’insegnamento fu reso per loro quasi inaccessibile dalla riforma della scuola fascista di Giovanni Gentile, ministro dell’Educazione Nazionale, ma anche nella pubblica amministrazione il personale femminile non poté superare il cinque per cento. L’Onmi, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, funzionava malissimo, costringeva madri e sorelle a file interminabili per chiedere sussidi che mai arrivavano. Per l’industrializzazione, evocata dal governatore, non ne parliamo nemmeno. L’Italia alla fine della guerra era un paese rurale e arretrato (basta leggere il celebre romanzo di Elio Vittorini “Conversazione in Sicilia”). Di case invece non c’è dubbio Mussolini ne costruì parecchie. Ma lo fece ad uso e consumo dei suoi gerarchi come Galeazzo Ciano che alla caduta del fascismo aveva un centinaio di appartamenti solo a Roma. «Le case dei gerarchi», sostiene Guido Leto, il capo della polizia « erano pagate quasi interamente dallo Stato. Sorgevano su terreni demaniali o comunali, ottenuti a bassissimi prezzi, con fortissimi contributi pubblici, con mutui a lunga scadenza e con un tasso minimo. Venivano concentrate in pochi stabili le sovvenzioni che avrebbero dovuto finanziare le cooperative. Gli stessi criteri valevano per l’arredamento delle abitazioni dei politici, dei funzionari, dei prefetti e cosı` via: un mobiliere che faceva lavori per le sedi di un ente faceva un omaggio al dirigente che gli aveva dato il lavoro o che aveva facilitato provvedimenti legislativi, concessioni, licenze.» L’elenco dei furti e delle ruberie di pubblico denaro che Mussolini consapevolmente autorizzò è molto vasto. Altro che Welfare, e altro che rivoluzione sociale. Gli italiani si impoverirono e si arricchì solo la ‘casta’ dei fedelissimi, la famiglia Petacci e la famiglia Mussolini. Poi arrivò la ferocia delle leggi razziali e anche gli italiani che si erano illusi, dimenticando i delitti di Stato, da Matteotti ad Amendola ai fratelli Rosselli, capirono la vera natura del governo mussoliniano. Poi arrivarono le leggi razziali su cui però Spirlì è più aggiornato.