Israele
si avvia alla formazione di un nuovo governo, il primo dal 2009 non presieduto
da Benjamin Netanyahu e senza la presenza del suo partito di maggioranza
relativa, il Likud. Dopo che Gideon Saar, leader del partito Tikva Hadasha (“nuova speranza”) e Naftali
Bennett, presidente di Yamina (“A destra”), hanno rifiutato le ultime offerte
del Likud per arrivare a un ministero insieme ai partiti religiosi, sembra
ormai sicura la costituzione di un governo trasversale, incentrato sul secondo
partito del parlamento israeliano, Yesh Atid (“C’è un futuro”)
e sul suo leader Yair Lapid, che ne ha avuto l’incarico dal Presidente di
Israele, Reuven Rivlin, di costituire il governo. Il prossimo primo ministro
però non sarà Lapid, ma proprio Bennett, almeno fino all’autunno del 2023,
quando dovrebbe subentrargli proprio Lapid. È una delle molte anomalie di
questo nuovo governo in formazione. Un’altra, molto vistosa, è la sua estrema
trasversalità. Bennett e Saar fanno parte dell’ala destra dello
schieramento politico israeliano, in teoria più a destra del Likud, e così
anche Lieberman, leader di Israel Beitenu (“Israele, la nostra casa); ma tutto
e tre hanno deciso di fare un governo con Lapid e Gantz (centro-sinistra) e
soprattutto col Partito Laburista e con Meretz (“Forza”) che sono all’estrema
sinistra. La maggioranza politica evidente, che l’elettorato israeliano ha
confermato in quattro elezioni negli ultimi due anni, è di centro destra (in
questa legislatura i deputati di questo orientamento sono 72 su 120), ma un
governo che la rispecchi non si è potuto fare, perché Bennett, Saar e Lieberman
si rifiutano di partecipare a qualunque ministero che sia presieduto da
Netanyahu, anche con alternanze nella posizione di primo ministro.
Dunque
quel che emerge è un “governo del cambiamento” di destra-sinistra, assai
disomogeneo al suo interno, ma in cui vi è un predominio numerico e politico
della sinistra. Un governo che fra l’altro non ha una maggioranza autonoma
costituita dai partiti che ne fanno parte. Infatti se si sommano i 17 deputati
di Yesh Atid, gli 8 del Kahol Lavan (“Blu e bianco”) di Gantz, i 7 ciascuno di
Yamina, Laburisti e Israel Beitenu, i 6 ciascuno di Meretz e di Tikva Hadasha, si
arriva a 58 voti, mentre la maggioranza parlamentare è di 61 voti. Bisogna
aggiungere almeno i 4 voti della lista araba islamica conservatrice Ra’am per
arrivare alla quota prevista, superandola appena di un seggio, il che ne rende
molto fragile la maggioranza di fronte a qualunque dissenso. E anche qui c’è
una contraddizione, perché il leader di Ra’am, Mansour Abbas, pur condannando
le violenze, ha ripetutamente espresso negli ultimi giorni “solidarietà” alle
proteste di piazza degli arabi israeliani contro le “provocazioni di
Gerusalemme”, cioè la presenza della polizia sul Monte del Tempio e la causa di
sfratto degli occupanti abusivi arabi di case ebraiche nel sobborgo di Sheik
Jarrah, mentre Bennett ne ha chiesto la repressione.
Dunque
il governo che nasce non ha un programma o un’ideologia comune, ma solo la
decisione di “superare il regima di Natanyahu”, ha forti tensioni al suo
interno ed esclude una parte significativa socialmente ma anche elettoralmente
della popolazione ebraica: i tre partiti religiosi, che insieme fanno 22 seggi
e il Likud che ne ha 30. Già si profilano nuove proteste, anche all’interno dei
partiti che lo compongono. I sondaggi dicono per esempio che il 70% degli
elettori di Yamina non sono d’accordo con le scelte di Bennett, che ha più
volte dichiarato di essere consapevole del dissenso e di assumersene la
responsabilità.
Chi ama
Israele non può che sperare che ci sia un governo che funzioni e possa guidare
il paese in un periodo pieno di insidie, fra l’ostilità di buona parte dei
democratici americani, le agitazioni che continuano in seno a palestinesi
e arabi israeliani, le minacce militari che provengono dall’Iran e dai suoi
satelliti, la ripresa terribile dell’antisemitismo in tutto il mondo. Ma
bisogna chiedersi onestamente se un gabinetto così disomogeneo, una volta
consumato il parricidio di Netanyahu, potrà reggere alle sfide, che cosa
accadrebbe se per esempio ripartissero le violenze nelle città miste come Lod e
Acco o se nuove provocazioni da parte di Hamas e Hezbollah sfidassero la
deterrenza israeliana, o se Biden riattivasse l’accordo con l’Iran, come sembra
molto probabile. Insomma, a un’analisi spassionata appare ragionevole che la
crisi politica di Israele non sia purtroppo conclusa con la formazione del
nuovo governo, ma anzi che questo purtroppo ne sia solo un nuovo
episodio.