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    Dopo la tregua con Gaza: chi ha vinto e quali sono i problemi aperti

    Dopo dieci giorni  di combattimenti, nella notte fra giovedì e venerdì si è conclusa con un cessate il fuoco senza condizioni la quarta guerra di Gaza (le precedenti erano avvenute nel 2008, 2012, 2014). E’ stata la più  persante di tutte. Basta pensare che nel 2012 Hamas aveva sparato 3.300 razzi in 42 giorni; questa volta ne ha tirati 4.400 in un quarto di quel tempo. Ma, grazie alla massima precisione raggiunta dalle armi israeliane, le vittime dalla parte di Gaza quella volta erano state 2125, mentre questa volta sono state poco più di duecento, mentre i danni all’apparato militare di Hamas sono stati molto maggiori di allora. Volendo riportare anche qui un solo dato, l’aviazione israeliana ha distrutto 140 chilometri dei tunnel d’attacco e logistici, che sono il più importante investimento militare di Hamas. Tanto per chiarire, si tratta di quasi quindici volte la lunghezza del tunnel sotto il Gran Sasso.

     

    Al di là dei dati tecnici, è evidente che la vittoria militare è andata a Israele. Il sistema Iron Dome ha  bloccato i missili di Hamas, anche quando sono stati sparati a raffiche di centinaia; i danni alla popolazione civile israeliana sono stati limitati; il dominio assoluto dell’aria e del mare ha permesso all’esercito israeliano di operare con tranquillità e di distruggere sistematicamente l’apparato militare di Gaza, eliminando anche parecchi comandanti importanti; Israele ha potuto anche evitare di entrare a Gaza per via di terra, il che avrebbe comportato gravi costi di vite umane e di relazioni politiche. Soprattutto Israele ha vinto la guerra dei tunnel dopo quella dei razzi. Non se n’è molto parlato finora, ma evidentemente Israele ha la capacità tecnologica di individuare esattamente il loro percorso e quella militare di colpirli e distruggerli dall’alto. Dopo l’arma dei missili, questo toglie ai terroristi di Hamas ma anche di Hezbollah al nord una delle risorse militari principali  e sconvolge la loro strategia.

     

    Non c’è dubbio che Iran e Hezbollah abbiano studiato con molta attenzione l’andamento della guerra e che il suo risultato garantisca a Israele una deterrenza e dunque un tempo di calma non solo a Gaza ma anche alle frontiere di Libano e Siria. Ma certo Hamas e Hezbollah sono ancora lì, la guerra non li ha fatti sparire. Altro terrorismo, altre insidie si preparano per il futuro, come è sempre accaduto con le aggressioni che ha subito Israele dalla nascita: tutte sventate, fino alla prossima volta. Ma il risultato possibile è stato ottenuto, e anche con una certa facilità. Alla riunione del gabinetto di guerra che ha deciso il cessate il fuoco, del resto, i comandanti militari e dei servizi hanno votato per la tregua, dichiarando che l’esercito israeliano aveva raggiunto i suoi obiettivi.

     

    Il bilancio politico è più complesso. Anche qui, certamente Israele ha ottenuto risultati importanti: la coalizione con i paesi arabi costituita con gli accordi di Abramo ha tenuto e Israele ha ricevuto solidarietà a vari livelli da paesi un tempo nemici senza compromessi come gli emirati arabi, l’Arabia, il Marocco. Altri, come l’Egitto, hanno preferito non schierarsi esplicitamente, ma anche questo è significativo. In un contesto pieno di conflitti come il Medio Oriente, il rispetto si ottiene con la forza e questa Israele l’ha mostrata. Si è confermato che se c’è qualcuno che oggi è in grado di resistere al terrorismo promosso dall’Iran, questi è Israele, il c he è fondamentale per la posizione di Israele nella regione. Vi è stata qualche manifestazione di solidarietà da parte di alcuni paesi europei: Germania, Cechia e Slovacchia hanno mandato i ministri degli esteri in Israele durante i combattimenti; l’Ungheria si è rifiutata di firmare un comunicato europeo troppo poco sensibile alle ragioni di Israele. Biden ha dovuto mostrare una solidarietà almeno verbale, resistendo alle pressioni dell’ala sinistra che ormai è dominante nel partito democratico.

     

    Hamas, che aveva iniziato i combattimenti con un ultimatum su Gerusalemme, pretendendo che la polizia abbandonasse il Monte del Tempio e che la causa per lo sfratto degli occupanti illegali della case del sobborgo di Sheikh Jarrah fosse annullata, non ha ottenuto i risultati cui dichiaratamente puntava. Ma certamente si è confermato il gruppo terrorista più potente e combattivo nell’ambito palestinese, senza confronto con Fatah e con l’Autorità Palestinese. Questo conterà molto nella partita per la successione di Muhamad Abbas alla presidenza dell’AP. Costui aveva annullato le elezioni promesse per paura di perderle e di essere estromesso, ma a 85 anni e poco in salute non potrà governare a lungo. Hamas si è candidata con forza alla conquista del governo di Ramallah e  ha anche confermato di essere uno strumento importante di ogni strategia antisraeliana. Dunque godrà ancora in futuro dell’appoggio privilegiato dei nemici dello stato ebraico, Iran in primo luogo, ma anche Qatar e Turchia.

     

    Soprattutto però Hamas è stato in grado di mostrare delle crepe nella base politica di Israele. La prima e più allarmante deriva dalla posizione degli arabi israeliani, che ci si illudeva fossero ben integrati e estranei a tentazioni terroriste. Era un’illusione un po’ superficiale: i loro deputati hanno preso spesso posizione per i nemici di Israele: c’è chi ha fatto dichiarazioni di fuoco, chi ha partecipato alle flottiglie per Gaza, chi è stato incriminato per aver tentato di contrabbandare  telefoni cellulari ai terroristi incarcerati o per aver fornito informazioni riservate ai nemici. Ora però si sono visti gravi tumulti di piazza;  non la guerra civile di cui alcuni hanno parlato superficialmente, ma certamente la presenza di nuclei combattivi e diffusi di Hamas fra gli arabi israeliani.

     

    L’altra faglia importante è  con gli Stati Uniti: il partito democratico, che è al governo, ha ormai una posizione maggioritariamente antisraeliana non solo al Congresso, ma anche fra gli elettori, come mostrano i sondaggi: “Il 38,5% dei democratici  ha incolpato Israele per l’ultimo round di combattimenti,mentre solo il 15,5% che ha incolpato Hamas, il 5,9% ha incolpato l’Iran e il 5,7% ha accusato l’Autorità Palestinese.” (https://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/306577). L’amministrazione di Biden ha bloccato alcune risoluzioni contro Israele al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma ha mostrato molta freddezza nei confronti dello stato ebraico, anche di fronte a una chiara aggressione terrorista. E al Congresso vi sono proposte di legge (firmate da Sanders, Warren, Ocasio Cortez, tutti democratici di peso) per bloccare gli aiuti militari a Israele. In questa direzione, bisogna ammetterlo con dolore, si sono mossi anche alcuni gruppi ebraici, che non solo non hanno espresso solidarietà a Israele, ma hanno dichiarato appoggio a Hamas. Negli Usa, come in Europa, si sono viste manifestazioni non particolarmente  numerose, ma piene di violento antisemitismo, in cui agli immigrati dai paesi musulmani si univano i rappresentanti della sinistra, non solo di quella estrema.

     

    Non sono problemi nuovi, ma il conflitto li ha messi in evidenza. La maggior vittoria politica di Hamas è una recrudescenza dell’antisemitismo e questo dovrebbe far riflettere tutti, in Europa e negli Usa, ma anche in Israele dove nei prossimi giorni ripartirà la politica dei partiti, con l’elezione del nuovo presidente della repubblica e le trattative per il nuovo governo che incombono.

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