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    Parashà di Nassò: Perché si dice “chazàk” ai kohanìm che hanno detto la berakhà

    Una delle mitzvòt della Torà è quella della birkàt kohanìm (benedizione dei kohanìm). Nella parashà  è scritto: “L’Eterno parlò a Moshè  dicendo: Parla ad Aharon e ai suoi figli e di’ loro: Così benedirete i figli d’Israele, dicendo loro: «Che l’Eterno ti benedica e ti protegga; che l’Eterno faccia sì  che la sua Presenza ti illumini  e ti doni grazia; che  l’Eterno diriga la Sua provvidenza verso di te e ti conceda pace. Essi invocheranno il Mio nome sui figli d’Israele e Io li benedirò»” (Bemidbàr, 6:22-27). 

    Nella ‘amidà questa è chiamata la “triplice berakhà” perché è composta da tre versetti e dopo ogni versetto la comunità risponde “amèn”. Nel Bet Ha-Mikdàsh veniva recitata come una sola berakhà senza interruzioni. Per questo R. Issakhar Beer Eilenburg (Posen, 1570- 1623, Austerlitz) rav del Friuli che visse a Gorizia, nell’opera Beer Sheva’, scrive che quando il chazàn recita la ripetizione della ‘amidà deve dire: “Benedici noi con la triplice berakhà nella Torà (virgola),  scritta per mano di Moshè  tuo servo…” perché nella Torà è triplice, nel Bet Ha-Mikdàsh era una.    

    R. Chayim Yosef David Azulai (Gerusalemme, 1724-1806, Livorno) scrive che si può fare questa berakhà anche se non vi è un Sèfer Torà . Inoltre è usanza che anche i bambini dei kohanìm possano salire a dare la berakhà con i padri. 

    Affinché i kohanìm possano dire la berakha è necessario un miniàn (numero) di dieci uomini adulti. Se il miniàn di dieci persone è composto solo da kohanìm, tutti i kohanìm salgono davanti all’aròn e danno la berakhà ai bambini e alle signore che si trovano nel matroneo.  

    Se un kohen si trova nel bet ha-kenèsset quando è tempo della berakhà e il chazàn chiama i kohanìm, egli è obbligato a salire davanti all’aròn e a dare la berakhà con gli altri kohanìm. Se non lo fa trasgredisce le tre mitzvòt prescrittive indicate nei versetti sopracitati: “Così benedirete”, “Di’ loro” e “E invocheranno il Mio nome sui figli d’Israele”. 

    Prima della berakhà i kohanìm devono lavare le mani. Usualmente la lavatura delle mani viene fatta dai leviti. Questa è un’usanza che ebbe inizio dopo la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh di Gerusalemme, ed è citata nello Zòhar in questa parashà. Nel Bet Ha-Mikdàsh i kohanìm lavavano da soli mani e piedi dal lavabo che si trovava tra il mizbèach (altare) e il Tempio. 

    Al termine della berakhà, prima che i kohanìm scendano e tornino al loro posto, dicono una breve preghiera: “Padrone del mondo, abbiamo fatto come ci hai decretato; fai anche Tu come ci hai promesso; rivolgi la tua presenza dal tuo luogo sacro, dal cielo, e benedici il tuo popolo, Israele, e la terra che ci hai dato come hai giurato ai nostri padri, terra dove scorre latte e miele”. 

    R. Feivel Cohen (Brooklyn, 1937) spiegò il motivo per cui viene usata la parola “decretato”. Di quale decreto si tratta? Nel Bet Ha-Mikdàsh era proibito rivolgere la schiena al Tempio. Vi era la sola eccezione quando i kohanìm dovevano dare la berakhà; essi salivano sulle scale di fronte al Tempio e si rivolgevano verso il popolo. Questo era un decreto divino che permetteva loro di rivolgere la schiena al Tempio e oggi permette ai kohanìm di rivolgere la schiena all’aròn

    R. Aharon Benzion Shurin (Lituania, 1913-2012, Brooklyn) domanda perché si dice “chazàk” ai kohanìm dopo la berakhà. Non hanno fatto essi solo il loro dovere di eseguire una mitzvà? Citando l’opera Kol Minhaghè Yeshurùn, egli risponde che dicendo “chazàk” si ringraziano i kohanìm per essere venuti proprio in “questo bet kenèsset” e non altrove.   

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