Nella storia degli ebrei di Francia, la sequenza rivoluzionaria e imperiale (1789-1815) costituisce un vero e proprio spartiacque sul piano politico: da una parte, quelli furono gli anni dell’emancipazione vera e propria (con l’ottenimento della cittadinanza e dell’uguaglianza, 1790-1791) e, grazie alla convocazione del “Grand Sanhédrin” (1806-1807), dell’istituzionalizzazione dell’ebraismo francese. Dall’altra, troviamo l’emanazione del “decreto infame” del 1808 e, più in generale, la spinta verso una politica di “rigenerazione” degli ebrei (già nell’ambiguo Saggio sulla rigenerazione fisica e morale dei Giudei dell’Abbé Grégoire, del 1787), insieme a diverse dichiarazioni pesanti di Napoleone sul “sangue ebraico”. Un’ambivalenza profonda, che spiega la grande pluralità di opinioni sull’atteggiamento di Napoleone nei confronti degli ebrei: non a caso, nel libro più importante sulla questione, L’Aigle et la Synagogue (Fayard, 2007), Pierre Birnbaum parlava di una “cacofonia”.
A prima vista, il lascito istituzionale sembra importante. Ai 71 ebrei del Sanhedrin presieduto dal rabbino David Sintzheim, furono fatte 12 domande, alcune a cui era facile rispondere (sulla poligamia o il divorzio, sul sentimento di fraternità degli ebrei di Francia nei confronti degli altri francesi) e altre più malevole, come questa: “Può un’ebrea sposare un cristiano o una cristiana un ebreo?”; o altre, molto delicate, che riguardavano la giurisdizione e la polizia degli ebrei. Il risultato fu l’istituzione di una comunità ebraica francese, una struttura che garantiva il rispetto della religione ebraica. Le odierne istituzioni ebraiche francesi ne sono la continuazione e, in quanto primo rabbino capo del Concistoro centrale, il rabbino Sintzheim fu il primo “grand-rabbin de France”, un titolo che esiste tuttora.
Ma questo riconoscimento ufficiale supponeva anche di limitare fortemente le prerogative delle comunità: era il prezzo dell’assimilazione alla nazione. Chi sottovaluta la gravità della rinuncia alle autonomie ebraiche è troppo condizionato dalla situazione attuale, in cui la tradizione di self-government ebraico è molto indebolita, addirittura in Israele: ormai si limita ai problemi di carattere “religioso” (secondo una distinzione perfettamente estranea alla tradizione ebraica: non tratteggia forse il Talmud mille argomenti, di cui molti non “religiosi”?). Ma, per secoli questa tradizione di autonomia fu una realtà costitutiva degli ordinamenti politici.
L’ambivalenza e la dimensione fondatrice del momento napoleonico nella storia ebraica fanno sì che esso rimane presente nel dibattito pubblico francese. Lo dimostrano un paio di articoli sulle pagine de Le Monde dell’inverno 2020 con posizione “incrociate” dell’americano James McAuley – preoccupato per “il futuro dell’ideale universale francese” – e del francese Marc Weitzmann, che invece si dichiarava critico su quest’ideale. Poche settimane fa, nel marzo 2021, si è discusso dell’uso politico dell’integrazione napoleonica che ha proposto Gérald Darmanin, il molto di destra ministro dell’interno francese. Nel suo libro, appena uscito (Le séparatisme islamiste, Éditions de l’Observatoire, 2021), Darmanin ha suggerito di prendere il processo di integrazione degli ebrei sotto Napoleone come modello per quella dei musulmani nella Francia di oggi e questo approccio ha sollevato dure critiche, che sono arrivate a sfiorare il sospetto di antisemitismo per alcuni passaggi (va detto, peraltro, che, pochi mesi prima, a proposito del cibo kasher e halal, lo stesso Darmanin aveva confessato di “essere sempre rimasto sconvolto quando, entrando in un ipermercato, [si trova davanti] un reparto di cucina comunitaria”).
Ma questi sono simboli e materie politiche. Con l’imporsi della laicità “alla francese”, definibile come una progressiva “invisibilizzazione” dell’identità religiosa degli individui nello spazio pubblico, le cose sono cambiate. La legge di separazione tra Stato e Chiese del 1905 pose fine alle istituzioni ebraiche napoleoniche come istituzioni pubbliche. Oggi, in Francia, le comunità ebraiche, pur avendo un “consistoire” e una struttura centralizzata forti, eredità della politica imperiale, sono molto meno integranti – anche perché sono molto più numerose – che in Italia, dove vige un concordato e dove, grosso modo, l’iscrizione alla comunità rimane per gli ebrei un fatto comune: un’organizzazione di stampo risorgimentale ma che è anche conseguenza dei Patti Lateranensi (1929) e che rende l’identità ebraica italiana più ufficiale e più visibile di quella francese. Il lascito napoleonico pesa più al livello dei simboli e della cultura storica comune che come realtà politica concreta e, paradossalmente, gli ebrei italiani conoscono una strutturazione più “napoleonica” di quelli francesi.
Louis-François Couché, Napoléon le grand rétablit le culte des Israélites le 30 mai 1806, 1806
Édouard Moyse, schizzo per Le Grand Sanhédrin, 1867
litografia di Émile Vernier dal quadro di Édouard Moyse, Le Grand Sanhédrin des Israélites de France, 1868