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    Commento alla Torà. Parashà di Metzora’: il mondo della Halakhà

    In questa parashà dopo le regole
    delle persone che rimangono afflitte da tzara’at,
    malattie della pelle impropriamente chiamate lebbra e più vicine alla psoriasi,
    il cui nome deriva probabilmente da
    tzara’at, la Torà prescrive cosa fare nel caso appaiano delle macchie
    verdastre o rossastre anche nei muri delle case nella Terra di Cana’an. Nella
    Torà è scritto: “Quando sarete entrati nella terra di Cana’an che sto per darvi
    in possesso, se manderò una macchia di tzara’at
    in una casa del paese in vostro possesso, il padrone della casa si recherà dal kohèn e gli riferirà parlando così:
    qualcosa che assomiglia a una macchia mi è apparsa nella casa” (Vaykrà, 14:34-35).

                    Rashì (Francia, 1040-1105) spiega che il padrone di casa deve
    parlare di “qualcosa che assomiglia a una macchia” e non specificare di aver
    visto una macchia di tzara’at perché
    per stabilire che la macchia sia veramente tzara’at
    è necessario che lo dichiari il kohèn. Pertanto anche se il padrone
    di casa è un talmìd chakhàm, una
    persona che conosce le regole della Torà, ed è certo che si tratti di una
    macchia di tzara’at, non deve dire di
    aver visto una macchia, ma solo qualcosa che assomiglia a una macchia.

                    R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (pp. 100-101) cita il
    Talmud babilonese nel trattato Sanhedrin (71a)
    dove è detto: “Non vi fu mai [nella Terra d’Israele] una casa con una macchia
    della tzara’at e non ci sarà mai; per
    quale motivo quindi questa regola è scritta [nella Torà]? Per poter studiare
    l’argomento e ricevere la ricompensa [di aver studiato Torà].

                    In Mesorav Harav, che è una raccolta di
    insegnamenti di R. Soloveitchik, il redattore ha tratto un passo dall’opera Halakhic Man, l’uomo di Halakhà, che vive seguendo le regole
    della Torà e che si immerge nel suo studio (p. 24). In questo passo R.
    Soloveichik scrisse: “L’uomo di Halakhà non
    si lamenta per nulla del fatto che molte costruzioni ideali non siano mai state
    realizzate, né lo saranno mai. Il desiderio dell’uomo di Halakhà è di immergersi nello studio della teoria e non della
    decisione pratica [anche se lo studio della teoria è poi necessario per saper
    arrivare a decisioni pratiche]. Per dimostrare questo concetto viene citata in
    una nota (n. 26, p. 147) un passo del trattato Kiddushìn (40b) dove fu posta ai maestri la seguente domanda: “Cosa
    è più grande, lo studio o la pratica? R. Akivà rispose: lo studio è più grande
    perché lo studio conduce alla pratica. R. Yosè rispose: lo studio è più grande
    perché precedette la regola della challà
    [obbligatoria in Eretz Israel] di quaranta anni [quando gli israeliti erano
    ancora nel deserto”[…].   

                    R. Soloveichik cita
    anche il Maimonide (Cordova,
    1138-1204, Il Cairo) e fa notare che “quando il Maimonide descrive l’ordine
    degli eventi della notte del quindici del mese di Nissàn [il seder di Pèsach]
    egli “dimentica” momentaneamente che vive circa mille anni dopo la distruzione
    del Bet Ha-Mikdàsh e dipinge
    l’immagine del servizio di questa sacra notte festiva con una ricchezza di
    colori che fanno abbagliare, che riflettono il servizio di Pèsach nel modo in cui veniva celebrato migliaia di anni prima
    nell’antica Gerusalemme e che verrà nuovamente celebrato nell’era messianica”
    […].  “Il Maimonide non intese scrivere
    l’ordine dell’osservanza delle mitzvòt
    della notte del quindici di Nissàn a
    beneficio della sua generazione, ma piuttosto per i pellegrini che salivano a
    Gerusalemme, che arrostivano i loro agnelli pasquali e li consumavano con canti
    di ringraziamento e lode” [all’Eterno] […]. 
    “Il sèder [di Pèsach] di cui tratta il Maimonide è una
    concezione ideale della notte di Pèsach.
    Il nostro grande maestro non pone attenzione al presente amaro e crudele. Di
    fronte ai suoi occhi vi è l’immagine di una Gerusalemme restaurata, del Bet Ha-Mikdàsh in tutto il suo
    splendore, dei kohanìm occupati nel
    loro servizio e dei liberi israeliti che osservano le mitzvòt.

                    R. Soloveichik
    conclude: “Il presente è solo un’anomalia storica nel processo di attualizzazione
    della Halakhà ideale nel mondo
    reale”.
       

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