Nei numerosi sondaggi elettorali pubblicati dai media israeliani compaiono una quindicina di partiti, fra cui tre sono nuovi e una decina dovrebbe superare lo sbarramento richiesto per entrare alla Knesset del 3,25 % dei voti (circa 100 o 120 mila, che assicurano quattro seggi). Ma nessun partito raggiunge il 25% e solo tre o quattro superano il 10%. Insomma c’è un’estrema frammentazione politica di un corpo elettorale assai piccolo: alle ultime elezioni in Israele hanno votato in 4 milioni e mezzo su circa 6 milioni e mezzo di iscritti (per confronto in Italia in 34 milioni su un corpo elettorale di 46). Nei 72 anni di vita del paese nessun partito ha mai avuto i seggi per governare da solo. Questa frammentazione viene dal sistema elettorale proporzionale con collegio unico nazionale, ma riflette una condizione profonda del paese, che è altrettanto diviso. Vi è una minoranza del 20% di arabi; ma grande è la differenza fra coloro che hanno radici europee (per lo più religiosamente askenaziti) e chi proviene dal mondo musulmano (“sefarditi” o “mizrachi”); ma anche queste definizioni non sono omogenee, perché è assai diverso venire dalla Francia, dagli Stati Uniti, o dalla Russia; ma anche dallo Yemen, dal Marocco o dall’Iraq. Ci sono gli etiopi e alcuni ebrei cinesi o indiani. Ci sono i religiosi, divisi fra osservanti, nazionalisti religiosi, “charedim”, gruppi religiosi a loro volta assai diversi, fedeli a costumi ottocenteschi. E vi è la tribù iperlaica e cosmopolita di Tel Aviv. C’è chi vive nelle metropoli, chi conserva il socialismo dei kibbutzim e chi sta negli insediamenti oltre la linea verde, chi vive di innovazione informatica e chi di agricoltura. Ci sono ricchi e poveri, giovani e anziani, residenti da generazioni e nuovi immigranti. Anche se queste barriere non sono affatto impermeabili e spesso le famiglie uniscono persone diversissime, in una società così frammentata e tanto abituata alla discussione polemica come quella ebraica, è impossibile disegnare vasti schieramenti politici secondo la logica maggioritaria anglosassone, soprattutto dopo la fine delle ideologie. Si è suggerito di consolidare il sistema introducendo collegi elettorali che imporrebbero la rappresentanza locale; ma spesso gruppi opposti convivono nello stesso luogo, come a Gerusalemme, dove a pochi isolati di distanza vi sono quartieri charedì, arabi, laici, cristiani. Non c’è insomma una soluzione tecnica per la difficile governabilità della società israeliana, che pure è governata bene e conosce grandissimi successi. Per una stabilizzazione parlamentare bisogna aspettare che si risolvano i nodi politici in gioco: l’assalto politico-giudiziario contro Netanyahu, il riflesso nella politica interna dei nuovi rapporti internazionali, il riequilibrio del sovrapotere preso dal sistema giuridico/poliziesco, le politiche ancora non chiare di Biden, la sorte dell’Autorità Palestinese quando finirà la dittatura di Abbas, i riflessi della gestione dell’epidemia, la sfida dell’Iran e quella della Turchia. Non è probabile che un nuovo blocco di governo stabile si affermi con le prossime elezioni di marzo; ma almeno un compromesso che sia in grado di affrontare i problemi principali sarebbe benvenuto.