di Vincenzo Pinto
Si è svolta sabato pomeriggio 2 marzo al Circolo dei Lettori di Torino l’anteprima nazionale della raccolta antologica L’ebraismo come scienza (Cultura e politica in Leopold Zunz), curata da Libera Pisano e Giuseppe Veltri ed edita dall’editore Paideia (quale secondo volume della nuova collana Biblioteca di cultura ebraica italiana). L’iniziativa è stata organizzata grazie all’associazione culturale torinese “Lama Ki”, la cui mission è quella di porre domande sempre nuove su temi ebraici (e non solo).
Pur trattandosi di un tema specialistico e di una pubblicazione rivolta prevalentemente ai cultori di storia e filologia ebraiche, l’antologia di testi di Zunz permette al pubblico italiano non solo di entrare a contatto col dibattito ottocentesco della Wissenschaft des Judentums (Scienza dell’ebraismo o ebraismo come scienza), ma anche e soprattutto di comprendere le ragioni profonde di un’opera etica e politica. I curatori hanno scelto otto testi: Sulla letteratura rabbinica (1818), Lo sviluppo storico dei sermoni nella liturgia ebraica (1832), La letteratura ebraica (1845), La poesia liturgica di Israele (1870), Su Moses Mendelssohn (1829), Politico e apolitico (1862), Rivoluzione (1865), La mia prima lezione a Wolfenbüttel (1937). La statura intellettuale di Leopold Zunz (1794-1886), variamente definito come “antiquario” (Jost) o “Lutero ebraico” (Ehrenberg), traspare nitidamente dall’afflato etico delle sue lotte pedagogiche e politiche per la riforma religiosa dell’ebraismo tedesco e per il suo inserimento nella cultura “gentile”, attraverso quella che si può definire la sua “umanizzazione”.
Che cosa significa “umanizzare” una cultura/civiltà come quella ebraica? I curatori, pungolati dai relatori (Claudia Milano, studiosa di filosofia ebraica contemporanea, e il sottoscritto, storico di sionismo e antisemitismo), hanno spiegato il senso di questo termine: né assimilazione, né integrazione, termini che richiamano due visioni opposte e tuttavia analoghe della politica identitaria. Se è vero che l’assimilazione intende imporre il modello sul diverso e l’integrazione far spazio nel modello al diverso, lo è altrettanto che nemmeno l’orizzontalità del multiculturalismo può essere ritenuto l’orizzonte di Zunz. Sarebbe antistorico, inutile e deleterio all’estensione dell’umanità, che infatti è un termine (oggi spesso abusato nel dibattito pubblico) che dovrebbe riscoprire il suo senso più profondo nelle cose.
Umanizzare significa elevare internamente una comunità e un gruppo, senza mancare di rispetto al “patto”. Non significa imporre la crescita dall’esterno, ma attivarla dall’interno. Questo fu ciò che l’antiquario Zunz cercò di fare: “rispolverare” l’immenso patrimonio culturale dell’ebraismo per avviare la crescita interiore degli ebrei come uomini (tesi, peraltro, condivisa da Arnaldo Momigliano). Se l’Ottocento conobbe la “nazionalizzazione parallela”, forse il nuovo millennio potrà conoscere la “cittadinanza parallela”, alla quale le diverse culture esistenti su un territorio politico possono e devono contribuire. Non certo erigendo muri o abbattendoli, ma capendoli storicamente. Ecco che la pubblicazione commentata di classici delle altre religioni (come il Talmud in italiano, per esempio) può avere un significato (oltre che un senso). A condizione però, come insegna Zunz, che questi testi servano a radicare maggiormente le comunità di appartenenza nella propria storia, per dar loro lo slancio necessario per balzare sopra il muro.
Due parole, infine, sul rapporto fra Leopold Zunz e Samuel David Luzzatto (1800-1865). È cosa nota il lungo scambio epistolare in lingua ebraica intrattenuto fra lo studioso tedesco e Shadal. Luzzatto, critico sia della filosofia maimonidea, sia del misticismo della Cabala, non era un sostenitore acritico dell’emancipazione ebraica, né apprezzò le pulsioni razionalistiche del suo sodale tedesco. La trentennale corrispondenza fra i due uomini fu infatti interrotta alcuni anni prima della morte di Luzzatto, quando Zunz sollevò alcuni dubbi sullo zelo anticabalistico di Shadal. Nel 1861 lo studioso triestino fece tuttavia ammenda del suo silenzio epistolare in nome delle voci dei paytanim (autori di poesie liturgiche).
La curatela di Pisano-Veltri potrebbe fungere da sprone a curare un’edizione critica del lungo scambio epistolare fra i due giganti dell’ebraismo europeo ottocentesco.