Furono 250 gli intellettuali ebrei toscani in fuga dall’Italia fascista, in conseguenza delle leggi razziali del 1938. E’ il primo dato, provvisorio e destinato a crescere, di un progetto di ricerca dell’Università di Firenze sull’emigrazione di studiosi e studenti ebrei, che decisero di espatriare dopo l’allontamento dalle cattedre e dalle aule scolastiche e universitarie. A Firenze su una quarantina di docenti dell’Ateneo, espulsi soprattutto dalle facoltà di Medicina e di Lettere e filosofia, furono sedici ad andarsene, soprattutto giovani studiosi e con famiglia. Di questa forzata ‘fuga di cervelli’ ha dato testimonianza il convegno “L’emigrazione intellettuale dall’Italia fascista”, svoltosi nell’Aula Magna del Rettorato dell’Ateneo di Firenze, a cura di Patrizia Guarnieri, docente di storia contemporanea. Per far emergere il sommerso di quell’emigrazione intellettuale tuttora non conosciuta nei numeri, nei percorsi e negli esiti accademici e professionali, il gruppo di ricerca sta lavorando a una ricognizione su “Intellettuali in fuga dall’Italia fascista” (Firenze University Press), che ha già il patrocinio della New York Public Library e che ne fornisce i percorsi biografici di mobilità, con un data base per ricerche sui dati raccolti.
Finora si sono individuati oltre 250 nominativi di espatriati (cominciando da quanti ebbero a che fare con la Toscana, per nascita o per formazione o professione): quasi tutti ebrei, praticanti o meno, uomini e donne, italiani e stranieri, e anche gli ‘incompatibili’ con le direttive del fascismo, che per le loro idee erano soggetti a venire sospesi o radiati, oltre che spiati, minacciati, imprigionati e peggio.
Alcuni partirono prima come Gaetano Salvemini, altri dopo il 1938; taluni cambiarono vita e paese due volte e più, come gli ebrei stranieri che erano venuti in Italia e dovettero rifare le valigie oppure nascondersi: da ‘brain gain’ divennero un ‘brain waste’. “I precari e giovani che decisero di andarsene costituirono delle perdite effettive ma quasi invisibili, facilmente cancellabili; a differenza dei professori di ruolo, non avevano un posto di lavoro dove eventualmente tornare dopo, e difatti tanti rimasero all’estero. Per quasi nessuno, comunque, fu facile.
Le fonti più rivelative al riguardo, oltre alle lettere e alla memorialistica, non sono le carte delle università italiane che deliberatamente minimizzavano e cancellavano le perdite, proibendo persino i necrologi dei docenti ebrei. Sono invece gli archivi delle università dei paesi di accoglienza e soprattutto quelli delle organizzazioni internazionali per i ‘displaced scholars’, sorte per aiutare accademici e professionisti (medici, psicologi, insegnanti ecc.) in fuga dal nazismo e dal fascismo.
L’Emergency Committee in Aid for Foreigner Displaced Scholars di New York dal 1933 al 1945 raccolse domande e segnalazioni di circa 6.000 studiosi, dalla Germania e poi da altri paesi, con l’Italia al terzo posto per numero. Appunti, brevi interviste, lettere di referenze, veline e scambi di informazioni tra persone che non si conoscevano e non sempre si intendevano, restituiscono frammenti preziosi dell’esperienza migratoria: sia da parte di chi la stava vivendo con grande spaesamento, sofferenza, e determinazione per ritrovare un lavoro e per dare un futuro ai propri figli, sia da parte di chi riceveva queste disperate richieste di aiuto e funzionava come ente di soccorso ma anche di reclutamento a basso costo di illustri professori e giovani talenti come Franco Modigliani o gli altri futuri Nobel. Emergono anche le prove di chi dall’Italia cercò di aiutare e chi no, i rapporti internazionali di cui godevano tanti studiosi italiani, le reti di aiuto familiare, il ruolo attivo delle donne. Considerate tuttora essenzialmente mogli al seguito di intellettuali eprofessionisti, anche quando erano dotate di titoli e qualifiche, le donne costituiscono la parte più nascosta dell’emigrazione intellettuale. Nelle decisioni familiari contava ovviamente anche l’eventuale presenza di figli e il loro avvenire. Adolescenti, bambine e bambini partivano con uno o entrambi i genitori oppure, affidati ad altri, li raggiunsero dopo e completavano la propria formazione all’estero. Ebbero di solito meno difficoltà della precedente generazione e taluni raggiunsero posizioni prominenti. (Red-Xio/AdnKronos)