Il tempo passa per tutti, si dice, ma è solo un modo di dire, un poco come i proverbi. Gli anni sessanta sono stati una stagione felice quasi ovunque. Oppure, per i pessimisti, potremmo azzardarci a dire che quegli anni sono stati una stagione leggermente meno infelice del solito. Ne consegue che sarebbe una vera cattiveria criticare chi, come negli anni sessanta, firma ancora manifesti e petizioni; certo, più cattiva ancora è la Treccani, quando accoglie l’accezione ‘firmaiolo’. Fa male, la Treccani, perché se una causa è nobile, appare sacrosanto sottoscrivere un manifesto. Tuttavia, è chiedere troppo, quando il sentimento è forte e lo spirito identitario si fa sentire, pretendere di rinvenire sempre nei testi anche un substrato di spirito critico, tale da eliminare ogni asimmetria informativa?
Chi scrive per una testata ebraica come questa, che rappresenta correligionari di tutti i ceti e, soprattutto, dalle idee politiche più diverse, tenta di rappresentarsi sovente quale possa essere il loro comun denominatore, segnatamente quando si passa alla ricerca dei profondi aneliti e dei traguardi da inseguire. Piace pensare, e chi scrive non costituisce un’eccezione, che il desiderio che accomuna tutti noi sia quello della normalità. Perché un popolo rinchiuso nel ghetto romano, fisicamente dal 1555 al 1848 e giuridicamente dal 1848 al 1870, indi nuovamente reso giuridicamente semi incapace dal 1938 al 1945, con alterne e macabre vicende, altro non può aspirare se non a quella normalità che lo portò ad eccellere nell’apporto al progresso del Paese, al quale diede la sua operosità e finanche il suo sangue.
Non sorprende, ma nemmeno rende entusiasti, la pretesa che talvolta s’affaccia, che lo Stato d’Israele, rifugio degli ebrei perseguitati, debba seguire logiche proprie delle legittime adesioni ideologiche di ciascheduno anziché quelle comuni a quelle degli Stati moderni e, si spera, democratici.
David Ben Gurion aveva (notoriamente) affermato che “Israele sarebbe diventato un paese normale quando nelle sue strade avrebbe avuto ladri e prostitute”. Nulla meno vero del brocardo “in claris non fit interpretatio”, se non altro perché talvolta esso si è prestato a (comprensibili) equivoci: Ben Gurion non spasimava di certo perché gli rubassero l’orologio o perché la prostituzione dilagasse, ma voleva soltanto dire che, dopo migliaia di anni, essere un popolo come tutti non sarebbe stato certo il peggiore dei traguardi.
Un conto è il sacrosanto diritto – dovere di criticare quando e quanto si vuole la politica israeliana, altro è pretendere che lo Stato d’Israele si conformi a regole che, forse, avrebbe potuto auspicare il Candide di Voltaire, e che nessuno Stato al mondo sembrerebbe adottare. Inoltre, non basta essere ebrei per essere rappresentativi oppure per essere paradossali, quasi che si rivendicasse l’esclusività nella tensione morale, se non altro perché la moralità è uno di quei beni che meno si presta ad un monopolio. Restiamo di destra, di centro o di sinistra, laici o religiosi, eterosessuali e non, romanisti oppure giallorossi. Consideriamo, però, che i paradossi veri si misurano più facilmente sul vissuto proprio che non su quello altrui.