“Da allora sono tornato a partecipare a missioni, in Kosovo, negli Emirati Arabi, in Afghanistan: cercavo risposte, avevo bisogno di rimettermi in gioco, di capire se e come ero cambiato. Ma anche se sono passati quindici anni, il ricordo di quella mattina, dell’immane boato prima e del silenzio surreale subito dopo, non si cancella. Come se fosse ieri”. Il maresciallo dei carabinieri Antonio Lombardo, 43 anni, attualmente in servizio a Gorizia, e’ uno dei sopravvissuti alla strage di Nassiriya, che il 12 novembre del 2003 spezzo’ 28 vite, quelle di 9 iracheni e di 19 italiani: 12 suoi colleghi dell’Arma, 5 militari dell’esercito e due civili, un cooperatore internazionale e un regista, Stefano Rolla, impegnato con la sua troupe nelle riprese di uno sceneggiato sulla ricostruzione. La deflagrazione dell’esplosivo – tra i 150 e i 300 chili – caricato sul camion cisterna lanciato da due kamikaze contro l’ingresso della base “Maestrale” fece decine di feriti, e tra loro Lombardo: “La lesione al timpano – racconta all’Agi – con il tempo e con le cure e’ guarita, le ferite che ci portiamo dentro non si chiuderanno mai”. “Sembrava una mattina uguale a tante altre”, ricorda il maresciallo: c’era un Paese devastato dalla guerra, e c’erano gli uomini di “Antica Babilonia”, chiamati ad aiutare quel Paese a recuperare un po’ di normalita’. Per riuscirci meglio, i carabinieri avevano scelto di stare ‘dentro’ il centro abitato, ed erano apprezzati per il loro lavoro: nessuno poteva immaginare quello che sarebbe accaduto. Le 10,40 locali, le 8,40 in Italia: “Ero di guardia, con altri due colleghi – continua il maresciallo -, d’improvviso, mentre eravamo in postazione, ci fu un’esplosione terribile e fummo investiti in pieno dall’onda d’urto, sfiorati da una pioggia di pezzi di corimec (i moduli prefabbricati, ndr) e di sassi che correvano veloci come proiettili. Fummo sbalzati a terra, io non mi ritrovai piu’ il fucile tra le mani: non sentivo niente, ma quello che piu’ mi colpi’ fu la sensazione di essere immerso in un paesaggio lunare, con una luce innaturale e polvere, lamiere, vetri, infissi e calcinacci sparsi ovunque”.
“Superato lo sconcerto iniziale – continua – e recuperate le armi provammo a contattare via radio i colleghi che immaginavamo piu’ vicini all’esplosione (la postazione di guardia era defilata rispetto al cancello della base ‘Maestrale’, mentre il comando della Msu, la Multinational specialized unit, era nella base “Libeccio”, un centinaio di metri piu’ in la’, ndr), ma dall’altra parte delle radio non arrivava risposta. Solo dopo diversi, disperati tentativi sentimmo rispondere qualcuno, con un filo di voce: ci disponemmo a partecipare ai soccorsi, ma dalla centrale ci arrivo’ anche una raccomandazione, ‘attenti ad altri, possibili attacchi'”. Attimi terribili, interminabili, nei quali al timore per la sorte che poteva essere toccata agli altri si mischiava il pensiero dei familiari in Italia: “Il mio telefono non funzionava, era stato danneggiato, e fu solo grazie a quello di un collega che riuscii a mandare almeno un sms alla mia ragazza. La ragazza che poi e’ diventata mia moglie”. Solo dopo una mezz’ora – prosegue con evidente commozione Lombardo – “avemmo la certezza che c’erano molti feriti gravi, e diversi morti: provavamo rabbia, e impotenza, cercavamo di trattenere le lacrime, ma era difficile anche perche’ si trattava non di semplici commilitoni ma di amici, di fratelli con i quali avevamo condiviso momenti belli e momenti difficili: e non sapere chi era stato risparmiato dalla tragedia e chi no impastava di incertezza il dolore e rendeva tutto ancora piu’ insopportabile”. Il resto e’ cronaca, anzi storia, dove al ricordo comune e all’emozione di un intero Paese si intrecciano le vicende individuali: per Lombardo come per altri, il rimpatrio, la convalescenza, la riabilitazione, un lento e progressivo ritorno alla normalita’. “Ma quello che e’ successo quel giorno – ribadisce – restera’ per sempre nel mio cuore e nella mia anima. Un fardello di cui e’ impossibile liberarsi”.