Si è spento questa notte in un
ospedale romano Lello Di Segni, l’ultimo sopravvissuto alla retata e alla
deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Di Segni fu tra i
pochissimi, 16 su 1022, a ritornare dall’inferno di Auschwitz.
“Ho lavorato per un anno, dal
1943 al 1944, come uno schiavo a Varsavia dove d’inverno la temperatura
scendeva di molti gradi sotto lo zero – ebbe a dire in una esclusiva intervista
al giornale Shalom, alcuni anni fa -. La mia sopravvivenza – spiegava – forse è
dipesa da due sole cose. Primo lavoravo, lavoravo e lavoravo senza fare
domande, senza pensare, eseguendo in modo automatico e immediato gli ordini.
Secondo, ogni giorno e ogni notte prima di addormentarmi pregavo il Signore,
con fede e speranza, con una preghiera che mi aveva insegnato mia nonna”.
Lello Di Segni aveva 16 anni
quando fu deportato con l’intera famiglia (la madre Enrica Zarfati, il padre Cesare
– anche lui sopravvissuto – due fratelli Angelo e Mario, una sorellina
Graziella e l’anziana nonna): nel giro di pochi minuti il loro mondo familiare
e sociale – vivevano nel cuore del quartiere ebraico, in via Portico d’Ottavia
9 – andò in pezzi. “L’impatto –
ricordava – fu terribile con comandi
urlati in tedesco, una lingua che non capivamo e che io ho imparato pochissimo
in due anni di prigionia”.
Lello Di Segni ha raccontato
la sua storia in un libro “Buono sogno sia lo mio”, a cura di Edoardo Gaj: “Ricordo come fosse ieri quella mattina e
quel tragitto breve eppure interminabile da casa fino a quei camion nazisti, parcheggiati
di fianco alla Sinagoga. Riesco ancora a vedere chiaramente le facce tristi e
compassionevoli di quei passanti non ebrei che avevano capito ma che
assistevano inermi, impotenti alla scena, senza poter intervenire”.
Nei dei due anni di prigioni
Lello Di Segni conoscerà luoghi mai immaginati (Auschwitz, Varsavia, Hallen,
Bergen-Belsen, Dachau), supererà esperienze terribili di botte, violenza, fame,
sete, freddo, fatica e di solitudine per l’incapacità di poter comunicare con gli
altri prigionieri. Per due anni non sarà più un essere umano, sarà uno stucke, un pezzo, che poteva
sopravvivere solo se poteva lavorare senza sosta (spostava sacchi del peso di
cinquanta chili, quando lui ne pesava meno di quaranta). “Eravamo come dei fantasmi, indifferenti a tutto e dimenticati da tutto.
L’odio verso gli ebrei era troppo forte. Il disprezzo e l’odio non permettevano
nessun gesto di pietà o compassione, nessuno”. Si poteva essere uccisi per
una minima mancanza. E Lello ricorda come gli vennero rubati gli zoccoli da un
prigioniero e di come a sua volta dovette rubarli ad un altro per poter
sopravvivere alle marce e alle lunghe ore di lavoro. E ricorda bene anche la
fame che lo spinse persino a rubare e a mangiare una patata cruda con tutta la
buccia. Una grave denutrizione che poi avrebbe condizionato la sua esistenza
anche negli anni successivi, con diversi interventi allo stomaco.
Il 10 giugno 1945 Lello
tornerà a Roma, dove alcuni mesi dopo rincontrerà il padre, ritornato con i
segni di una malattia nei polmoni contratta nelle miniere tedesche. Padre e
figlio saranno uniti ancora di più dalla terribile comune esperienza della
deportazione e della Shoà e da una iniziale incapacità a parlarne. “I primi tempi ho preferito tacere. Preferivo
rimanere in silenzio: non avrei sopportato lo scetticismo degli intervistatori,
il fatto che qualcuno avrebbe potuto interrompere i miei racconti accusandomi
di esagerare alcuni particolari della mia storia”.
Poi con il trascorrere degli
anni Lello si è aperto al racconto, all’incontro con tante scolaresche, alla
testimonianza, e alle interviste. Con una sola precauzione: non ha voluto
ritornare più nei luoghi della sua tragedia, non ha mai voluto partecipare ad
un viaggio della memoria nei campi di sterminio. “Non ce la faccio – diceva -,
è più forte di me, sono sensazioni ed emozioni troppo intense, troppo dolorose
e io non sono più in grado di reggere un peso simile. Non posso e non voglio”.
Il numero tatuato sul suo braccio
era 158526.