Tra i luoghi
del ricordo a Roma ce ne è uno che è rimasto inaccessibile per decine di anni
anche se non è mai scomparso dalla memoria degli ebrei romani. Questo luogo
è Palazzo Salviati: tutti lo conoscono
come Collegio militare. E’ sul Lungotevere, a un passo da San Pietro, in pieno
centro della città. Fu lì che il 16 ottobre del 1943 vennero concentrati i
milleduecento ebrei della razzia. “C’era un indicibile caos – riporta nei suoi
scritti Arminio Wachsberger – l’atmosfera era terribile. Le SS picchiavano e
urlavano e il peggio era che nessuno, all’infuori di me, capiva quello che dicevano.
Rimanemmo due giorni in condizioni atroci. Dormivamo per terra, c’erano con noi
dei bambini e anche dei malati. Ma ciò nonostante i più pensavano ad una sorte
ben diversa da quella che li attendeva…”. Duecento persone circa furono
progressivamente liberate, gli altri rimasero lì fino al 18 ottobre quando
vennero portati alla stazione Tiburtina e da lì caricati sul convoglio che
arrivò ad Auschwitz il 23 ottobre. All’arrivo dei 1022 che erano sul treno
superarono la selezione di ingresso al campo 149 uomini e 47 donne. Alla fine
della guerra tornarono in 16. Nessuno dei bambini si salvò.
Ieri, per il
secondo anno, l’Associazione “Ricordiamo insieme” ha organizzato una cerimonia
proprio in “quel” cortile. Una celebrazione sobria e formale eppure commossa e
priva di retorica. Una commemorazione importante sia per le parole pronunciate
e che per gli oratori che lo hanno parlato di fronte ad un pubblico ebraico, ad
alte cariche istituzionali e ad alcune scolaresche.
Colpisce il
filo che collega tutti gli interventi di parte ebraica – da Noemi Di Segni,
presidente Ucei, a Ruth Dureghello, presidente della Comunità di Roma, al
rabbino capo Riccardo Di Segni. Accanto alle figure istituzionali anche i
ricordi di Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz, e l’appello di Nando
Tagliacozzo, famigliare di deportati: per loro, alle parole di rievocazione del
passato, si accompagna una riflessione preoccupata sul presente.
Ma a
cominciare dal principio, nell’attesa, l’elenco dei nomi dei deportati vengono
elencati in tono sommesso nel cortile e costringono anche il pubblico ad un
tono smorzato. Qualcuno ogni tanto si interrompe: “Mia nonna”, dice, “Mio zio”.
Tra gli ebrei romani non vi è famiglia che non abbia avuto deportati quel
giorno.
Per Noemi Di
Segni le mura di quel cortile isolarono allora gli ebrei romani dal resto della
città, mura che si frapposero “tra noi e l’Italia che credevamo essere la
nostra Patria”. “E – prosegue – sapere non è un diritto, sapere quanto accadde
è un dovere. E, ancora di più, lo è far sapere agli altri, ai giovani, a coloro
che allora non c’erano”.
Piero
Terracina che ha raccontato la sua storia non solo nei libri ma anche nelle
scuole di tutta Itala ed è andato anche in Giappone dove ha incontrato i
sopravvissuti dell’atomica, sottolinea con forza che “è importante conoscere”.
Anche per questo il racconto non parla della prigionia ma del ritorno:
“dell’indifferenza delle persone e delle istituzioni. Nessuno mi ha mai chiesto
se avrei riconosciuto il fascista che ci ha catturato. C’era solo il silenzio,
mancava la volontà di perseguire i fascisti. Io avrei voluto giustizia, non
vendetta. Volere vendetta mi avrebbe messo allo stesso livello degli
assassini”. Al termine del discorso l’Ambasciatore della Repubblica Federale di
Germania si avvicina a Piero: gli consegna un mazzo di fiori e ha la faccia
contratta dalle lacrime.
Ruth
Dureghello racconta invece della complicità, dei silenzi, dell’indifferenza e
dell’opportunismo in un’intervento che intreccia con rigore testimonianza famigliare
e riflessione istituzionale. Anche coloro che da quel cortile riuscirono ad
uscire – e furono circa 200 – ne portarono i segni per tutta la vita. Ricorda la deportazione dei carabinieri del 7
ottobre che anticipò la razzia degli ebrei. Ma Dureghello conclude parlando di
vita: della giornata della cultura ebraica appena trascorsa e della libertà di
portare oggi, con orgoglio, la kippà, un segno visibile di identità e di vita.
Un valore irrinunciabile.
Il rabbino
capo Riccardo Di Segni riflette sull’indifferenza che accompagnò quel luogo e
quei giorni. E ricorda “l’intervento selettivo” compiuto da un alto prelato che
salvò solo gli ebrei battezzati lasciando gli altri in balia della ferocia
nazista. Ricorda che 75 anni anni fa
tra quelle mura venne condotto prigioniero anche l’Ammiraglio Capon che,
espulso dall’esercito in quanto ebreo, e oramai in carrozzina a rotelle, più
fascista dei fascisti, rimase fedele al Duce fino all’ultimo. Perché gli ebrei
erano lo specchio dell’Italia: il genero dell’Ammiraglio era il fisico Enrico
Fermi scappato in America con la moglie proprio per non sottostare all’onta
delle Leggi razziali. Una memoria che compone un puzzle doloroso: oggi gli
orizzonti sono altri “ma almeno – conclude preoccupato – abbiamo avuto l’Europa
e settant’anni di pace”.
Molti gli
altri interventi istituzionali che hanno seguito: da Oren David , ambasciatore
d’Israele presso la Santa Sede
all’arcivescovo Santo Marcianò, ordinario militare per l’Italia, che ha citato
le parole scritte da Papa Francesco sul libro d’onore di Auschwitz:
“Signore abbi pietà del tuo popolo, Signore perdona per tanta
crudeltà”. Marcianò ha citato anche “l’assurdo della superiorità razziale
rispetto al quale non bisogna abbassare la guardia. E che oggi giorno si ripresenta
rivolta ai più deboli”. Per Michael
Jonas, pastore della Comunità Evangelica Luterana di Roma, “il 16 ottobre fu
l’ora più nera delle relazioni tra la Germania e questa città”.
Alle mura
“testimoni silenziose di uno dei momenti più dolorosi della storia della città”
fa rifermento anche il generale Massimo De Casale, presidente del Casd – il
Centro Alti Studi per la Difesa – che
spiega: “Oggi le Forze armate vogliono rendere testimonianza concreta e rispettoso
ricordo delle vittime di un odio sconsiderato” per questo è importante che nel
cortile dove oggi passano centinaia di allievi dell’esercito, luogo di incontri
nazionali ed internazionali, venga apposta una targa anch’essa sobria ed
essenziale: “Il 16 ottobre 1943 1022 cittadini ebrei romani furono sottratti
all’affetto dei loro cari dall’odio razziale e concentrati nel cortile di
questo antico palazzo prima di essere avviati verso i campi di sterminio. Nel
75° anniversario le Forze Armate posero a memoria”.
Tra gli
intervenuti anche Nando Tagliacozzo, la cui nonna, lo zio e la sorellina Ada,
furono condotti quell’ottobre in questo cortile, tra le mura che isolarono gli
ebrei romani lasciandoli soli a dispetto della vicinanza con il centro della
città e con la cupola di San Pietro: “Oggi – conclude commosso – non è più
tempo di lutto ma di ricordo, commemorazione e, soprattutto, di riflessione. Io
credo di poter chiedere e pretendere da tutti voi, oggi qui presenti, proprio
perché qui presenti, un impegno. Un impegno ad agire, un impegno a fare tutto
quello che potete, in futuro, nel quadro delle vostre possibilità, delle vostre
attività e delle vostre responsabilità, in modo che simili abbandoni, come
quello di quei giorni al Collegio militare, non avvengano mai più”.