L’episodio degli esploratori che al ritorno dalla terra di Canaan affermarono che sarebbe stato impossibile conquistare il paese, mostra come sia difficile cambiare la mentalità di un popolo che era stato schiavo anche dopo avere ricevuto la libertà. I miracoli dell’Egitto furono presto dimenticati da un popolo che non credeva in se stesso e non aveva fiducia nell’aiuto del Cielo. Per entrare nella terra promessa era necessaria una nuova generazione cresciuta nel deserto.
Per questo motivo l’Eterno disse che “[…] tutti gli uomini che hanno visto la mia gloria e i segni compiuti da me in Egitto e nel deserto e tuttavia mi hanno messo alla prova già dieci volte e non hanno dato ascolto alla mia voce, non vedranno la terra che ho giurato di dare ai loro padri, e tutti quelli che mi trattano senza rispetto non la vedranno (Bemidbàr, 14:22-23). L’eccezione fu “il mio servo Calèv, che è stato animato da un altro spirito […] (ibid., 24). Più avanti è scritto: “Gli uomini che sono usciti dall’Egitto, dai vent’anni in su, non vedranno mai la terra che ho promesso con giuramento ad Avraham, a Yitzchàk e a Ya’akòv, perché non mi hanno seguito pienamente, se non Calèv, figlio di Iefunnè, il Kenizzita, e Yehoshua’, figlio di Nun, che hanno seguito l’Eterno pienamente” (Bemidbàr, 32:11-12)
Che cosa ispirò Yehoshua’ e Calèv a resistere alla opinione della maggioranza degli esploratori e poi a continuare a sostenere la loro posizione di fronte al popolo ormai scoraggiato?
R. Yosèf Shalòm Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 280) scrive che quando ci si trova in una compagnia come quella degli esploratori è assai difficile essere sicuri di poterne uscire senza essere influenzati dalle loro opinioni, se non si è animati da “un altro spirito”. Uno spirito controcorrente che permetta di resistere alle opinioni della società.
È comprensibile che Yehoshua’ che era il più fedele discepolo di Moshè, e che poi divenne il suo successore alla guida del popolo, sapesse resistere alle opinioni della maggioranza. Ma quale fu lo spirito che ispirò Calèv? Per cercare una risposta r. Elyashiv cita il Talmud babilonese (trattato Sotà, 34b) dove in un passo di carattere midrashico i maestri affermano che la moglie di Calèv era Miriàm, sorella di Moshè. Quando il faraone decretò di buttare a mare tutti i maschi nati agli israeliti, Miriàm sollecitò i genitori a non scoraggiarsi perché avrebbero avuto un figlio, Moshè, che avrebbe salvato il popolo d’Israele dalla schiavitù. E quando dopo tre mesi dalla nascita il piccolo Moshè, fu messo nella corrente del Nilo a galleggiare in una cesta, Miriàm non perse coraggio né la convinzione che il fratellino sarebbe sopravvissuto. I maestri affermano nel versetto nel quale è scritto “La sorella del bambino si pose (va-tetatzàv) a osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto” (Shemòt, 2:4) vi è un’allusione al fatto che Miriàm non aveva perso fiducia e voleva solo sapere come la sua profezia si sarebbe avverata.
R. Elyashiv afferma che la parola “va-tetatzàv” significa una forte presa di posizione. Lei sapeva con certezza che Moshè si sarebbe salvato. Proprio nel momento in cui la sua profezia era in bilico, Miriàm non perdette fiducia nel futuro. E se era la moglie di Calèv, si può capire che ebbe qualche influenza nei confronti del marito. Per questo l’Eterno disse di Calev che “era animato da un altro spirito”.