Un risalente volume collettaneo, intitolato “Riparare Risarcire Ricordare Un dialogo tra storici e giuristi “ a cura di Giorgio Resta e Vincenzo Zeno-Zencovich, edito dall’Editoriale Scientifica nell’ottobre 2012, pone delle questioni che si rivelano essere a tutt’oggi di notevole attualità. Il volume è stato pubblicato con il contributo del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca – Fondi PRIN 2008 delle Università di Roma Tre, di Bari “Aldo Moro” e del Salento. Stante l’importanza dei contributi culturali e dell’esistenza di un contributo economico, è da augurarsi che il volume abbia avuto ed abbia tuttora la diffusione che merita.
Il dialogo tra storici e giuristi, richiamato nel titolo, postula che lo storico si interessi del diritto e che il giurista si interessi della storia. Si chiama “dialogo interdisciplinare” e non richiede che lo storico diventi giurista oppure che il giurista diventi storico, bensì che l’uno e l’altro possiedano gli strumenti basilari ed elementari per poter perlustrare l’altrui disciplina senza lacune epistemologiche ostative.
Sennonché, l’unico modo per passare indenni fra gli scogli delle petizioni di principio e del pensiero abduttivo, consiste nel riscontro coi dati che emergono dalla realtà concreta la quale, nel nostro caso, si appalesa nella giurisprudenza, laddove si legge, ad esempio, che “La Repubblica Sociale Italiana accentuò la politica antisionista” (Cassazione penale 19449/2010). A proposito di quest’ultima sentenza, una nota rileva, fra altro, che “A prova di tale assunto la Suprema Corte menziona i diversi provvedimenti antisemiti adottati a partire dal 1938. In primo luogo la Corte di legittimità si sofferma sul documento simbolo della svolta antisionista italiana: il Regio Decreto del 17 novembre 1938 n. 1728 ‘che traduceva in norme di legge la decisione del Gran Consiglio del fascismo del 6 ottobre precedente’” (Sergio Barbaro, Diffamazione, verità giudiziaria e verità storica in una recente sentenza della Cassazione, Diritto dell’Informazione e dell’Informatica (Il), fasc.6, 2010, pag. 880, nota a:Cassazione penale, 8 gennaio 2010, n.19449). Nella medesima nota si conclude che “In definitiva il giudice che si sostituisce allo storico, seppur per pervenire a conclusioni condivisibili nella sostanza, si incammina su un sentiero che non gli appartiene e che si profila irto di ostacoli. In un processo, come il nostro, in cui la figura del consulente tecnico assume un ruolo sempre più rilevante nel coadiuvare il giudice in scelte specialistiche spesso difficili, potrebbe pertanto essere utile di fronte a procedimenti che vertono sull’accertamento di fatti e circostanze risalenti nel tempo, avvalersi di chi è più esperto del magistrato nel metodo e nell’indagine storica”. Sarebbe da soggiungere che il sopra riprodotto richiamo al sionismo sembrerebbe un fuor d’opera.
Un esempio della sopra richiamata petizione di principio può essere identificata nell’irresponsabilità del militare: perché andare alla ricerca delle colpe se il postulato di partenza risiedesse nell’assoluta cogenza degli ordini? Al riguardo si rileva: “È certo che, una volta dedotta dalla logica dell’obbedienza la tesi dell’irresponsabilità morale, prima che penale, di un soldato per qualsiasi azione gli sia stata ordinata, il risultato sarebbe che nessun militare potrebbe mai essere processato per atti compiuti in divisa: dato che ogni superiore è a sua volta dipendente da un ulteriore superiore gerarchico, si può far ricadere la responsabilità di qualsiasi azione criminale direttamente sul capo supremo delle forze armate o, nel caso di un regime totalitario, sul dittatore cui di regola le forze armate sono subordinate: scomparso lui, circostanza che di solito si è già verificata quando si celebrino processi che mettano in discussione la liceità di quegli ordini, tutti sono da considerarsi “irresponsabili”. Come già rilevò il 14 marzo 1957 il deputato austriaco Ernst Fischer nel dibattito parlamentare sull’abolizione della legge sui criminali di guerra, “qui si tratta di una questione di fondo, cioè se uno che massacra donne e bambini, fa gassare persone, commette ogni crimine, possa invocare a sua giustificazione un ordine superiore” (Paolo Pezzino, Lo storico come consulente, in: Riparare Risarcire Ricordare Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 102 ss.).Ora, se il giudice non è chiamato a sostituirsi allo storico, ed in questo si concorda con l’annotatore, gli potrebbe essere invece richiesto di saper approcciarsi alla storia. Poiché il diritto non può essere isolato dalla realtà circostante, il giurista che conoscesse soltanto il diritto, rischierebbe di isolarsi dal contesto in cui è chiamato ad operare. Quando la Scuola Superiore della Magistratura organizza dei corsi, come ha fatto di recente, ricorrendo anche ad insegnanti di riconosciuto valore, non farebbe male ad aprire un dialogo con gli specialisti della materia, se non altro per conoscere, sia pure in modo sintetico, le diverse concezioni che si contendono il campo.
Lo Stato, poi, non dovrebbe esimersi dal rispondere a diritto, ed al riguardo si apprende che “Sullo sfondo di questa vicenda è assai probabile che aleggi lo spirito del cosiddetto “lodo Moro”, un accordo segreto stipulato il 19 ottobre 1973 tra Moro, allora ministro degli Esteri, e i rappresentanti dell’Olp, nei giorni in cui infuriava la guerra dello Yom Kippur tra Israele ed Egitto11. Il patto prevedeva la salvaguardia del territorio na zionale dalla minaccia di attentati terroristici in cambio della liberazione dei militanti palestinesi arrestati sul suolo italiano e la tolleranza da parte dell’autorità del nostro Stato nei riguardi del passaggio di armi e di munizioni che sarebbero state utilizzate in Medioriente contro Israele. Il “lodo Moro” regolò una serie di episodi ripetutisi nel tempo che implicarono la liberazione riservata e illegale di vari militanti palestinesi per ragioni di sicurezza dello Stato e che videro protagonista proprio il colonnello Giovannone. Uno fra tutti, forse il più importante: il 31 ottobre 1973, nel corso della guerra dello Yom Kippur due dei cinque fedayn arrestati a Ostia il 5 settembre 1973, mentre preparavano un attentato all’aeroporto di Fiumicino ai danni di un aereo della El Al Israel Airlines, furono scarcerati e fatti espatriare in Libia a bordo del bimotore Argo 16, grazie a un’operazione del Sid voluta dal direttore Vito Miceli, anche lui uomo di fiducia di Moro. Come è noto, il 23 novembre 1973, lo stesso aereo precipitò nei pressi del centro petrolifero Agip di Porto Marghera. Nella sciagura morirono i quattro militari italiani membri dell’equipaggio che di solito utilizzavano il velivolo per trasportare i civili della Stay-behind alla base sarda ove avvenivano le esercitazioni dei gladiatori. Nel corso della lunga inchiesta che ne seguì furono incriminati, tra gli altri, il generale Zvi Zamir, capo dei servizi segreti israeliani dal 1968 al 1974 e Aba Léven, ex responsabile del Mossad in Italia, i quali poi vennero assolti.( Miguel Gotor, La storia sotto chiave: il segreto di Stato e il terrorismo degli anni Settanta, in : Riparare Risarcire Ricordare Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 66 ss.
Il volume in oggetto, malgrado i dotti interventi, lascia aperti degli interrogativi, anche se Antonino Intelisano (Giustizia e storia: metodologie a confronto, in :Riparare Risarcire Ricordare Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 73 ss.) riesce a fornire dei richiami preziosi, quando evoca Marc Bloch, lo straordinario storico ebreo, fucilato dai nazisti, il quale in Apologie pour l’Histoire si domandava: “pour agir raisonnablement, ne faut-il pas d’abord comprendre? (per agire in modo ragionevole, non bisognerebbe anzitutto comprendere?).
Serve pudore per richiamare la cultura generale, ma forse i tempi sono maturi per diventare impudichi, se non altro perché, per capire, bisogna prima acquisire i dati.