In questi giorni, Netflix manda in onda “Curtiz” (2018), sul regista del leggendario film Casablanca, di cui si narra la gestazione, senz’altro sbocco, in questo caso, che una produzione poco fluida e scorrevole. Il segreto dei film è l’esatto opposto di quello dei romanzi, i primi non debbono avere tempi morti, i secondi debbono averne di infiniti. Se alcuni film di Federico Fellini non sono più in programmazione in televisione (la quale è un mezzo asettico e neutrale rispetto alle pellicole) è per via dei tempi morti e non soltanto perché inesorabilmente inchiodati alle pretese e alle promesse dei meravigliosi anni sessanta, una sorta di Scuola di Francoforte dello schermo, ormai improponibile.
Michael Curtiz era il nome americano di Manò Kertesz Kaminer, un ebreo ungherese che, assieme a John Ford (Stagecoach /Ombre Rosse) Orson Welles (Citizen Kane /Quarto Potere) divide l’onore e la contesa per il miglior film di tutti i tempi.
Curtiz arrivò negli USA nel 1926; nel 1938, quando Jack Warner (chiamato Jacob Warner), figlio di ebrei polacchi (vedi Frank Willer, Casablanca, As Time Goes By, 1992, p. 86) andò in Ungheria, il regista gli chiese di ottenere dei visti per la sua famiglia; vi riuscì per la madre, ma non per la sorella, che finì ad Auschwitz con il marito ed i tre figli; sopravvissero soltanto lei e un figlio. Per un orrendo scherzo del destino, e questo forse nessuno l’ha notato perché ignaro del problema, siffatta orribile vicenda personale è assolutamente speculare a quella di Casablanca, che ruota anch’essa attorno ai visti (‘lettere di transito’, nel film). I quali visti erano, brutalmente, l’unica possibilità di sfuggire all’implacabile macchina dello sterminio.
Il produttore era Hal Wallis, il cui nome primigenio era Aaron Blum Wolowicz, figlio di ebrei askenaziti che avevano tramutato il loro nome, mentre la ‘company production’ era la Warner Bros, una diarchia che si risolse in una corsa a ricevere fisicamente l’Oscar, nella quale Jack Warner surclassò Wallis, che masticò amaro (vedi Neal Gabler, An Empire of their own. How the Jews invented Hollywood, New York, 1988, p. 194). Anche gli sceneggiatori, Howard Koch ed i fratelli Julius e Philip Epstein erano ebrei (vedi Jeff Siegel, The Casablanca Companion, Dallas, 1992, p. 86), come erano ebrei l’autore della colonna sonora, Max Steiner e l’attore Peter Lorre (László Löwenstein), un comprimario alquanto famoso.
Nel film di Netflix tutto ciò sbiadisce, in favore di un’immersione totale nella prospettiva del presente (dove Curtiz è un womanizer impenitente) però coi colori e le atmosfere di un film noir; per non farsi mancare nulla, la narrazione è pesantemente penalizzata, anche se questa è la connotazione dell’industria cinematografica attuale.
È interessante notare come anche allora gli ebrei dovessero mimetizzarsi; ed è buffo notare come i Vichinghi, un film del 1958 che raffigura questo popolo presumibilmente ariano, avesse come regista l’ebreo Richard Fleischer e come protagonisti, Issur Danielovitch e Bernard Schwartz, più noti coi nomi di Kirk Douglas e Toni Curtis.
Qualche affezionato antisemita sosterrà che gli ebrei, lungi da essere meritevoli per il loro contributo culturale ed artistico, in realtà ‘controllavano’ Hollywood. Con molta più aderenza alla realtà, si è detto (Mark Horowitz, Was Hollywood too Jewish?, Tablet Mag, 6/9/2017) che malgrado Casablanca avesse produttori, sceneggiatori e regista ebrei, la parola “ebreo” oppure “lager” non appare mai, benché molti personaggi fossero palesemente ebrei, perché i realizzatori del film si sentivano profondamente americani; e se vi erano i Cukor, Lubitsch e Wilder, non mancavano gli Sturges, Ford, Hawks, Hitchcock e Capra.
Oggi giorno troviamo, fra altri, Woody Allen, un genio indiscutibile, come è indiscutibile che l’ebraismo faccia molto più comodo a lui di quanto lui faccia comodo all’ebraismo. Il citato Horowitz non è d’accordo con Neal Gabler (op. cit.) del quale possiamo salvare, però, almeno una frase sull’industria cinematografica:”There were none of the impediments imposed by loftier professions and more firmly entrenched businesses to keep Jews and other indesirables, out” (p.5).
È vero che i Hollywood moguls sposarono donne ebree, salvo lasciarle per delle affascinanti non ebree; del loro ebraismo, quale ultimo rifugio, rimase la cucina ebraica ed il ricorso allo yiddish quale lessico familiare col quale non farsi capire. Però nelle feste comandate andavano nei tempi riformisti, come la maggior parte degli ebrei americani (vedi anche Michael Freedland, Revealed: the truth about the ‘Jewish’ Hollywood, Jewish Chronicle, 5/9/2015).
Conteggiare il numero di ebrei, o di cattolici o di islamici o quel che volete? Lo si fa sempre in modo malevolo ed è un’operazione non solo razzista, ma anche molto sciocca. Comunque, non vi è nulla di male in ciò che un afro americano possa essere fiero di Spike Lee ed un ebreo di Steven Spielberg, purché né l’uno né l’altro si pongano degli inammissibili problemi identitari. Più facile a dirsi che a farsi.