Il terzo libro della Torà, Vaykrà (Levitico), inizia con la descrizione dei sacrifici, per l’espiazione di alcuni peccati o volontari, che si portavano nel Mishkàn e poi nel Bet Ha-Mikdàsh.
R. Shimshòn Nachmani (Modena, 1706-1778, Reggio Emilia) nella sua opera Zera’ Shimshòn, cita il Talmud Yerushalmì (trattato Rosh Hashanà, 2:5) dove rav Kahana menziona un versetto dal libro di Shemuel (I, 3:14) dove è scritto: ”Il peccato della casa di ’Elì non sarà espiato né con sacrifici né con offerte”. ‘Elì fu kohèn gadòl e giudice d’Israele per quarant’anni. I suoi figli avevano abusato della loro posizione di kohanìm e si erano comportati in modo non consono alla loro posizione. Nel fare ciò avevano commesso un chillùl Hashèm, una profanazione cosi grave da non poter ottenere espiazione con i sacrifici. R. Kahana sostiene che il testo afferma solo che essi non potevano ottenere espiazioni tramite dei sacrifici. Da qui egli deduce che avrebbero potuto ottenere espiazione tramite la tefillà (preghiera).
R. Nachmani afferma quindi che la tefillà ha maggiore forza dei sacrifici. E questo lo dimostra menzionando il fatto che quando una persona faceva teshuvà, cioè voleva ritornare sulla strada giusta e portava un sacrificio al Bet Ha-Mikdàsh, doveva posare le mani sull’animale, confessare la propria colpa e pregare l’Eterno che il peccato fosse espiato. Lo scopo del sacrificio era quello di far sì che il penitente pregasse di essere perdonato e di ottenere espiazione per il suo peccato. La tefillà era più importante del sacrificio.
R. ‘Ovadià Bertinoro (Bertinoro, 1445-1515, Gerusalemme) nel commento alla Mishnà (Kelìm, 1:8) scrive che nel Bet Ha-Mikdàsh si permetteva agli israeliti che portavano un sacrificio di entrare anche nell’area riservata ai kohanìm (‘Ezràt Kohanìm). R. Nachmani afferma che veniva loro concesso il permesso di entrare in questa zona che aveva maggiore kedushà, perché era più adatta a ricevere le tefillòt (preghiere). Mentre normalmente si portava il sacrificio nella zona esterna riservata agli israeliti (‘Ezràt Israel), si permetteva di sacrificare l’animale nella ‘Ezràt Kohanìm proprio perché il penitente potesse fare la sua tefillà in un luogo dove sarebbe stata più facilmente accettata.
R. Nachmani aggiunge che il patriarca Ya’akòv ebbe la visione della scala con gli angeli che salivano e scendevano proprio nel luogo del Bet Ha-Mikdàsh e disse che quella era “la porta del cielo” attraverso la quale salivano le tefillòt. Con la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh la porta del cielo fu chiusa alle nostre tefillòt. Tuttavia nel Shir Hashirìm (Cantico dei Cantici, 2:9) è scritto: “Ecco che [l’Eterno] sta dietro al nostro muro, guarda dalla finestra, spia dalle inferriate”. Senza il Bet Hamikdàsh non vi è più una porta per fare salire le nostre preghiere, ma al Muro Occidentale, il Kotel Ma’aravì, vi sono delle “finestre” attraverso le quali fare salire le nostre preghiere. Se si è chiusa la porta del cielo restano ancora aperte le finestre.
E non bisogna dimenticare che i nostri Batè Kenèsset, le sinagoghe, sono chiamate dai maestri, “un piccolo mikdàsh”. Per questo motivo è preferibile pregare nel Bet Ha-Kenèsset anche quando non vi è un minyàn (Shulchàn ‘Arùkh, O.C., 90:9)