
In attesa della seconda fase
Il piano di pace per Gaza non è ancora entrato nella seconda fase, quella del vero dopoguerra, dato che vi sono ancora alcune salme di rapiti da recuperare per concludere la prima. Ma il voto del Consiglio di Sicurezza della risoluzione 2803 del 17 novembre la prefigura e ora le diplomazie lavorano per trovare il modo concreto di superare gli ostacoli per attuarla e insieme per consolidare gli equilibri per il dopoguerra. L’ostacolo principale alla seconda fase, che è quella in cui si dovrebbe realizzare la sistemazione pacifica di Gaza, è la violenta ostinazione di Hamas che pur avendo dichiarato la sua disponibilità poco dopo la presentazione del Piano Trump, ora rifiuta di consegnare le armi e di cedere il governo della Striscia, sostenendo che “le armi sono un diritto della resistenza”, che l’amministrazione internazionale sarebbe “una nuova occupazione”, la quale “ escluderebbe il popolo palestinese e le sue aspirazioni”.
L’opposizione di Hamas
Hamas è stato sconfitto sul campo da Israele, la sua catena di comando è stata disarticolata, molte basi missilistiche e fortificazioni distrutte. Ma nella zona che ancora controlla (un po’ meno della metà di Gaza) ha ancora qualche migliaio di soldati addestrati, in questo periodo ne sta reclutando altri da una popolazione che le è in buona parte ancora favorevole; sta cercando di usare il contrabbando per riarmarle e la tregua per prepararle; controlla ancora una rete di tunnel d’attacco distrutta solo in parte da Israele. Insomma è in grado non di vincere battaglie, ma di usare il terrorismo per colpire anche pesantemente la forza internazionale che dovrà assicurarne il disarmo e sostenere la nuova amministrazione. Ma che stato vorrà rischiare davvero i propri soldati per assicurare tranquillità a Gaza? Israele naturalmente non vuole truppe di stati come il Qatar e la Turchia che proteggerebbero i terroristi; gli Stati Uniti non intendono mettere “stivali sul terreno” della Striscia, ma solo coordinare da fuori. Si tratta di un problema non facile da risolvere, non solo per l’astuzia e la doppiezza dei terroristi, ma anche per l’ambiguità dell’Autorità Palestinese. Non è escluso che alla fine l’esercito israeliano debba intervenire di nuovo per eliminare con la forza i terroristi e le loro armi. Sarebbe una nuova fiammata di combattimenti, ma non necessariamente la ripresa della guerra.
La zona di Gaza controllata da Israele
In alternativa c’è una formula già prevista nel piano Trump: lasciare i terroristi isolati nella parte di Gaza che controllano, senza estendervi l’attività della nuova amministrazione, inclusa la ricostruzione, che si svolgerebbe invece nelle zone oggi controllate da Israele. Del resto l’attrito con Hamas prosegue anche in questa metà di Gaza, dove l’esercito israeliano lavora quotidianamente per distruggere le infrastrutture terroristiche e ripulire il territorio dai nemici. C’è un caso emblematico di questa situazione, quello dei 150 o 200 terroristi rintanati nei tunnel a est si Rafah, che Israele ha circondato. Hamas ha richiesto che venissero liberati cercando la sponda americana; Israele non ha ceduto e conta di costringerli ad arrendersi o a tentare di uscire come ha fatto l’altro giorno 17 di loro, quasi tutti catturati o uccisi. Lentamente ma sicuramente il territorio viene messo in sicurezza, anche grazie alla costituzione di gruppi arabi armati formati da tribù locali che si sono ribellate a Hamas.
Gli altri fronti
Questo lavoro lungo e faticoso di ripulitura del territorio e di assicurazione che gli accordi di tregua siano rispettati prosegue anche al nord. In Libano il governo dichiara di voler eliminare del tutto la struttura militare di Hezbollah, come previsto dagli accordi, ma l’esercito non riesce o non vuole completare l’operazione, anche a causa della sostanziale complicità di Unifil (la forza dell’Onu) con i terroristi. Gli Usa hanno chiesto la sostituzione del capo dell’esercito, Israele più concretamente continua a distruggere istallazioni e depositi di Hezbollah e a eliminare i suoi quadri, mentre l’Iran cerca di spedir loro rifornimenti. In Siria le trattative col nuovo regime sono a un punto morto. Israele vuole la sicurezza che non vi saranno concentrazioni terroriste ai suoi confini e che i drusi, minoranza minacciata ma anche nuovi preziosi alleati, non saranno più attaccati; il regime siriano vorrebbe che Israele tornasse alle linee precedenti alla guerra come precondizione per ogni accordo. Con un gesto altamente simbolico, nei giorni scorsi Netanyahu e i più importanti leader militari hanno fatto visita alle truppe che difendono una fascia cuscinetto abbastanza estesa all’interno delle frontiere siriane. Si può scommettere chi vi resteranno a lungo. C’è un braccio di ferro in corso anche con l’Iran, che prova a riarmarsi con l’appoggio cinese, nonostante le gravissime difficoltà economiche ed ecologiche (una mancanza d’acqua che potrebbe portare al trasferimento della capitale lontano da Teheran) che minacciano rivolte interne. Ma forse gli ayatollah pensano che la ripresa della guerra potrebbe aiutare a bloccare il dissenso interno.
Uno sguardo strategico lungimirante
Una guerra complessa, vasta e difficile come quella scatenata due anni fa dalla rete terrorista guidata dall’Iran, non si conclude di colpo, soprattutto perché i nemici sono impegnati a cercare di far passare l’idea di non aver perduto e provocato gigantesche perdite inutili nel loro stesso fronte, perché altrimenti ne subirebbero durissime conseguenze da parte della loro stessa base. E dunque resistono, cercano trucchi e rivincite almeno di immagine. Da parte di Israele c’è bisogno di pazienza, di acume, della capacità di mediare con le esigenze degli alleati, prima di tutto con gli Usa. Ed è necessario guardare con lungimiranza al nuovo Medio Oriente, alla costruzione del sistema di alleanze che dovrà portarvi la pace e il progresso economico in alleanza con gli Usa. Questo spiega per esempio l’accoglienza molto prudente riservata alle aperture americane all’Arabia, incluso il proposito di fornirle quelli aerei F35 che sono il nucleo della superiorità aerea israeliana e hanno contribuito in maniera decisiva alla vittoria nella guerra dei 12 giorni contro l’Iran. Nonostante alcune voci contrarie, il governo israeliano ritiene di poter accettare un potenziale alleato come l’Arabia, armata in un futuro a medio termine (almeno 7 anni) degli F35 depotenziati dalle maggiori innovazioni apportate dagli ingegneri israeliani, mentre non potrebbe accettarlo nel caso di un potenziale nemico come la Turchia e in effetti vi si è opposto con molta energia. Nel frattempo l’industria bellica israeliane è destinata a crescere e a eliminare le difficoltà di rifornimento che hanno reso lo stato ebraico vulnerabile e ricattabile negli ultimi anni e i militari si addestrano con nuove tecnologie avveniristiche: si vis pacem, para bellum, come dicevano i romani.












