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    ISRAELE

    Sopravvivere con meno di 300 calorie al giorno: le conseguenze della fame sugli ostaggi di Hamas

    Le testimonianze degli israeliani rapiti da Hamas e liberati dopo mesi, e in alcuni casi quasi due anni, di prigionia, raccontano un orrore che va ben oltre la tortura fisica e psicologica. Dietro le ferite visibili e i traumi della reclusione, emerge una sofferenza più silenziosa, ma comunque devastante: quella della fame estrema, del lento collasso del corpo, privato di ogni nutrimento.
    Durante la prigionia infatti, gli ostaggi avrebbero ricevuto appena 200 o 300 calorie al giorno: un quarto di pita, un cucchiaio di riso, a volte un dattero, e, nei casi più fortunati, mezzo bicchiere d’acqua torbida o addirittura acqua di mare. Giorni interi trascorsi senza cibo, settimane in cui il corpo ha dovuto imparare a consumarsi per sopravvivere.

    “Un adulto necessita almeno di 2.000 calorie al giorno per mantenere le funzioni vitali”, spiega il professor Yuval Khalad, esperto di fisiologia umana. “Quando l’apporto energetico scende a un decimo di quel valore, l’organismo entra in una modalità di emergenza, iniziando a distruggere se stesso per alimentarsi”. Secondo Khalad, dopo pochi giorni di digiuno il corpo esaurisce le riserve di zuccheri nel fegato e nei muscoli, e comincia a utilizzare i grassi come fonte di energia. Ma quando anche queste riserve si esauriscono, inizia la fase più pericolosa: la distruzione delle proteine. “Le proteine non servono solo a costruire i muscoli”, spiega il professore. “Sono la materia prima di ormoni, enzimi, anticorpi. Quando vengono consumate per produrre energia, il corpo si autodistrugge”. È in questo momento che iniziano a manifestarsi i segni del collasso: perdita di massa muscolare e ossea, rallentamento del battito cardiaco, abbassamento della pressione e della temperatura corporea. Gli ostaggi, secondo le testimonianze, tremavano dal freddo anche in stanze chiuse e calde. “Il metabolismo rallenta per risparmiare energia, ma questo significa che il cuore si indebolisce, il sangue circola con difficoltà e il rischio di morte cresce giorno dopo giorno” sottolinea Khalad.

    Ma la fame non colpisce solo il corpo. Colpisce anche la mente. I sopravvissuti hanno parlato di apatia, distacco, perdita di emozioni, incapacità di distinguere tra sogno e realtà. Tutti sintomi di un cervello costretto a lavorare al minimo. “Il corpo riserva al cervello solo l’energia necessaria per le funzioni vitali”, spiega l’esperto. “Da qui la depressione, le allucinazioni, la totale perdita di lucidità”.

    Gli effetti ormonali sono altrettanto devastanti: negli uomini crollano i livelli di testosterone, nelle donne si interrompe il ciclo mestruale, mentre cresce il cortisolo, l’ormone dello stress. Fegato e reni, privi di nutrienti, non riescono più a filtrare tossine né a regolare i sali minerali. In queste condizioni, anche bere una piccola quantità di acqua salata può risultare fatale.

    Tuttavia, la liberazione, per molti, non segna la fine della sofferenza. Tornare a mangiare dopo mesi di fame può essere pericoloso. “Quando un corpo affamato riceve improvvisamente cibo, soprattutto carboidrati, può sviluppare la sindrome da rialimentazione, che provoca gravi squilibri elettrolitici e può portare a un arresto cardiaco”, avverte Khalad. Il ritorno ad un’alimentazione normale deve quindi essere graduale e controllato, con monitoraggi costanti e una dieta calibrata. I medici raccontano che molti degli ostaggi liberati hanno perso decine di chili, con muscoli e ossa estremamente indeboliti. Alcuni faticano ancora a reggersi in piedi per più di pochi minuti, altri soffrono di crampi, debolezza cronica e perdita dei capelli. “Una fame così estrema non è solo privazione di cibo”, conclude il professor Khalad. “È un collasso sistemico che può lasciare danni irreversibili. Ogni organo, ogni cellula lavora sull’orlo del fallimento”.

    Le ferite della fame si sommano a quelle psicologiche e morali, rendendo ancora più arduo il cammino verso la guarigione. “Il nostro dovere, come medici e come società” afferma Khalad “è ridurre al minimo le conseguenze e permettere a queste persone di tornare, per quanto possibile, a una vita sana, funzionale e dignitosa”.

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