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    Il dialetto giudaico- romanesco: un linguaggio cifrato?

    Il Rione S. Angelo, che conteneva l’area del ghetto di Roma, ha sempre avuto un fascino particolare: gli antichi edifici, le piccole stradine, i resti di un passato con le sue vetuste memorie sono immagini che rappresentano il periodo del ghetto, luogo nel quale vissero gli ebrei dal 1555 al 1870. L’area fu quasi completamente demolitatra gli anni Ottanta del XIX secolo e gli inizi del secolo successivo. L’unica zona delghetto rimasta è quella relativa ai fabbricati che insistono su Via della Reginella.

    Nel tempo, soprattutto dopo l’emancipazione, il giudaico romanesco fu senz’altro la lingua utilizzata dalle classi meno abbienti, mentre le famiglie che intendevano distinguersi per mentalità e cultura respingevano tale uso a favore della lingua italiana.

    Il Morè (maestro) Nello Pavoncello (Roma, 23.7.1922 – 26.6.1999) ha incarnatol’ebraismo romano della seconda metà secolo scorso, divenendo la memoria storica e degli usi vigenti nella comunità. Egli studiò a fondo il dialetto giudaico romanesco e, a questo proposito, scrisse un breve ma significativo testo intitolatoModi di dire ed espressioni dialettali degli ebrei di Roma nei quali evidenziò alcune frasi della parlata:

    Attenti a’jorbedde”, “attenti alla guardia!”. Questa affermazione riguardava soprattutto i bambini che giocavano a pallone per la strada quando avvisavano la presenza di un vigile. Il vocabolo Jorbedde è formato dalle consonanti dell’alfabeto ebraico jod (=10) e bet (=2), dunque 12, in quanto nel gioco del lotto, il vigile, il pizzardone, veniva indicato con il numero 12.

    L’ha fatto un sacco di chanefudde”, Gli ha fatto un sacco, una quantità di canefut(dall’ebraico adulazione). Si adoperava questa espressione per indicare “colui che prodiga soverchie e non meritate lodi, per guadagno o per bassezza d’animo. Infatti il vocabolo chanefut è il sostantivo del verbo le-chanef, nel significato di agire male, adulare.

    Tutto o’ revache va’in ruach”, Tutto il guadagno (dall’ebraico: revach, guadagno, utilità) va in cose vane, vuote (dall’ebraico ruach, vento). Espressione questa con la quale si indica che tutto ciò che uno guadagna lo spende con facilità, per motivi futili.

    Il Morè sosteneva che

    dovevano essere studiate, coltivate e mantenute, in quanto il dialetto giudaico romanesco è impregnato di una quantità di vocaboli ebraici e per tale ragione esso si ricollega alla conoscenza della nostra lingua, legame indissolubile tra la diaspora e la Terra d’Israele. Come si può notare si tratta di termini ebraici talvolta banali, altre volte enigmatici accompagnati da voci dialettali che possono di non immediata comprensione.

    Morè Nello Pavoncello

    È da notare che scongiuri ed ingiurie, frasi che apparirebbero come un linguaggio cifrato furono caratteristiche della lingua parlata da un gruppo socialmente ristretto: gli ebrei di Roma la cui vita ruotava, in prevalenza, nell’area dell’antica piazza Giudea. Il poeta Crescenzo Del Monte (Roma 1868- 1935) fu il cultore del giudaico- romanesco di cui si occupò per quasi tutta la vita, pubblicando alcuni volumi di poesie dal titolo Sonetti giudaico- romaneschi (1908) e Sonetti giudaico-romaneschicon note esplicative (1927). È dunque merito suo se questo linguaggio è stato reso immortale.

    Crescenzo Del Monte

    Gli ebrei continuano oggi la loro vita a Roma, ancora fedeli alle loro tradizioni e perfettamente integrati nella città nella quale risiedono da oltre duemila anni ininterrottamente. Chi è dunque più romano “dell’ebreo de Roma”?

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