
La violenta campagna contro Israele
Come quando Israele entrò a Rafah, l’anno scorso, la nuova strategia delle forze armate israeliane per Gaza ha suscitato commenti violentissimi dei media italiani. C’è chi ha parlato di “ferocia di Israele” che “nega ai palestinesi il sogno del ritorno” (Malcangi sulla “Stampa”), chi parla di “invasione massiccia” e “occupazione” (Frattini sul “Corriere”). In rete si ripropongono le solite accuse di “genocidio” e volontà di “eliminare i palestinesi”. Naturalmente l’Onu esprime “allarme” e l’Unione Europea si dice “preoccupata”. La realtà è molto diversa e merita di essere spiegata con chiarezza.
La guerra finora
Il 7 ottobre non è stata un’avventura sanguinosa, un pogrom (un cruento tumulto popolare antisemita) e neppure una semplice anche se ampia e sanguinosissima operazione terroristica. E’ stato l’inizio di una guerra, esplicitamente finalizzata alla distruzione di Israele. Ai terroristi di Gaza si sono uniti poi Hezbollah, gli Houti, forze in Siria e in Iraq, tutti controllati dall’Iran. Lo Stato ebraico ha risposto con la logica della guerra, ha cioè cercato di scardinare il più possibile l’organizzazione militare dei nemici, badando a salvaguardare la popolazione civile. Ha colpito cioè le concentrazioni dei combattenti terroristi (quando si sono fatti trovare), i depositi d’armi, i centri di comando e controllo (spesso nascosti sotto ospedali, moschee e scuole), i comandanti, i mezzi di collegamento e di rifornimento, i lanciamissili. Ha deciso di farlo soprattutto dall’aria o con mezzi non convenzionali (come i cercapersone minati contro Hezbollah), per evitare di coinvolgere troppo i civili e anche di esporre i propri militari. Bisogna ricordare che Israele è un piccolo paese, che fa fatica a tenere sotto le armi centinaia di migliaia di soldati. E’ necessario anche sapere che in un attacco di terra a una difesa fortificata (com’è il caso di Gaza) il rapporto necessario agli assalitori per prevalere è di almeno cinque o sette a uno. Per questo Israele ha limitato il più possibile le operazioni di terra: sono stati occupati stabilmente solo i bordi di Gaza, per mettere in sicurezza le comunità della “cintura” intorno alla Striscia e impedire il contrabbando d’armi con l’Egitto; e poi uno o due corridoi trasversali a Gaza, in modo da impedire la concentrazione dei nemici e infine fasce poco profonde del territorio di confine di Libano e Siria. Il resto della Striscia è stato investito da veloci operazioni di penetrazione, distruzione dell’infrastruttura nemica e ritiro.
Perché Hamas non si arrende
Ormai l’esercito israeliano ha distrutto la maggior parte dei comandanti (inclusi i capi supremi), delle armi e delle forze terroriste organizzate, anche se Hamas continua a reclutare fra la popolazione di Gaza che le è complessivamente favorevole. In una guerra normale una condizione del genere porta alla resa e alla pace, perché le forze armate si sentono parte del Paese e vogliono impedire che esso subisca danni ulteriori e inutili. Non è così a Gaza. Le ragioni sono tre. La prima è che ancora i terroristi dispongono di un’arma terribile, i rapiti israeliani. La seconda è che hanno molti appoggi internazionali, quelli militari dell’Iran e degli Houti e quelli politici di una improbabile ma potentissima coalizione che comprende Russia, Cina, Unione Europea, Onu, sinistre di tutto il mondo. E poi c’è il fatto che i terroristi, anche se hanno organizzato forti formazioni militari, non combattono una guerra tradizionale ma una guerriglia, la cui strategia rifiuta sempre di accettare la sconfitta, perché si sente legata alla propria missione e non al benessere del proprio popolo, e dunque se sopraffatta fugge, si nasconde, colpisce a tradimento, attende di ricostruire le sue forze per riprendere il combattimento frontale.
La fragilità degli Stati democratici
Oggi la facilità di costruire, nascondere. trasportare missili capaci di colpire la popolazione civile dello stato nemico favorisce questa strategia. Quando poi lo stato nemico è civile, democratico e avanzato come Israele, esso è strutturalmente molto più vulnerabile e il suo dibattito interno può essere sfruttato dai terroristi per paralizzare le forze preponderanti del suo esercito. Un missile vicino all’aeroporto, la minaccia di morte dei rapiti, il lutto per i caduti rischiano di logorare assai di più Israele di quel che costi ai terroristi l’eliminazione dei loro battaglioni. Essi lo sanno benissimo e infatti sono disposti a promettere di riconsegnare i rapiti e a cessare le ostilità solo in cambio dell’abbandono di Gaza da parte dell’esercito israeliano, della loro permanenza nella Striscia con le armi, di un impegno internazionale che garantisca la loro sopravvivenza e la “ricostruzione” (che ovviamente includerebbe quella delle loro fortificazioni sotterranee). Cioè niente meno della loro vittoria: una sconfitta decisiva per Israele, preludio, nella loro strategia, alla sua prossima distruzione.
Gli stivali sul terreno
Di fronte a questa situazione Israele è costretto a perseguire non la normale sconfitta, ma la distruzione completa di Hamas e degli altri movimenti terroristici di Gaza e deve inoltre trovare il modo di eliminare l’influenza che essi hanno sulla popolazione. Il solo modo di farlo è la presa completa del controllo dell’intera Striscia, non per l’ambizione di impadronirsene (si tratta di una trentina di chilometri di costa, senza risorse particolari o importanza strategica se non perché vi si annidano i terroristi), ma per imporre quella pace che altrimenti non sarebbe possibile. Per farlo colpendo il meno possibile i civili israeliani intende utilizzare la sezione più meridionale di Gaza dove vuole sistemare la popolazione e distribuire i soccorsi necessari in maniera che essi non finiscano in mano ai terroristi, com’è accaduto finora. La maggior parte della Striscia sarà occupata dalla forze armate, stabilmente e non solo con spedizioni occasionali, per tutto il tempo necessario a stanare e distruggere i gruppi terroristi, eliminare del tutto armi, fortificazioni, catene di comando e possibilmente anche riuscendo così a liberare i rapiti che ancora sono in loro possesso. Non è una strategia “crudele”, è la stessa che ha portato gli Alleati a risalire faticosamente l’Italia e a occupare con durissime battaglie tutto il territorio tedesco prima di concludere la Seconda Guerra Mondiale. E’ un modo di combattere che costa molte vite anche all’esercito liberatore, che richiede tempo e sforzi, che certamente metterà in tensione l’economia e anche la politica israeliana. Ma è necessario. Anche se l’aviazione può stabilire un dominio essenziale, solo “gli stivali sul terreno” sono in grado di imporre la pace a un nemico che non si arrende.