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    Il “Cielo Nero” sugli ebrei libici – Intervista all’autore Herbert Avraham Arbib

    Tra le diaspore più buie del popolo ebraico, la “diaspora libica” rappresenta senza dubbio una delle pagine più tristi della storia del ‘900. La comunità ebraica libica è stata per secoli tra le comunità ebraiche più antiche e fiorenti del Mediterraneo. Ebrei cosmopoliti forti delle loro affascinanti tradizioni, che vissero a stretto contatto, e in maniera pacifica, con le popolazioni arabe locali fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Sebbene l’equilibrio cominciò ad incrinarsi a partire della Seconda Guerra mondiale, fu dal 1945 che la situazione per gli ebrei libici cominciò a cambiare radicalmente. Un’ondata di violenza si riversò sulla popolazione ebraica, a causa del nazionalismo dilagante che affondava le sue radici nei confronti dell’odio verso la nascita del nuovo stato d’Israele. Più di 32.000 ebrei emigrarono tra il 1949 e il 1951, in Israele, per rincorrere il loro ideale sionista. Successivamente la guerra dei sei giorni del 1967 rappresentò l’ultima campana per il resto della comunità ebraica, la quale fu dirottata urgentemente verso le coste italiane. Quando il colonnello Gheddafi prese il potere nel 1969, erano rimasti meno di 600 ebrei in Libia. Il nuovo regime si impegnò velocemente ad espellerli, cancellando tutte le tracce della presenza ebraica, distruggendone i cimiteri e convertendo le sinagoghe in moschee. Molti ebrei arrivarono in Italia, in particolare a Roma, alcuni momentaneamente, altri rimasero in pianta stabile cercando di ricostruire quella forte identità comunitaria ormai frammentaria. Oggi gli ebrei libici continuano ad avere un fortissimo legame con le loro tradizioni e rappresentano una parte fondamentale dell’ebraismo. Shalom ha intervistato Herbert Avraham Arbib, autore del romanzo autobiografico “Cielo Nero” (Salomone Belforte Editore, 2021). Il suo primo libro; un testo che attraverso la storia famigliare e personale dello scrittore, riesce con maestria a ripercorrere le vicende di un’intera comunità. Un grande senso di resilienza e di rinascita accompagna la narrazione.

     

    Perché ha deciso di scrivere questo libro? Lei viene dall’ambiente scientifico e accademico, cosa l’ha spinta a dedicarsi alla scrittura?

     

    Il libro non è la mia autobiografia, perché non interesserebbe a nessuno, è un romanzo autobiografico che cerca di ripercorrere gli ultimi decenni della diaspora ebraica in Libia. Molta gente non conosce questa storia, ed è importante raccontarla. Non sono una persona che guarda al passato in maniera nostalgica, con rimpianto, non mi sento vittima di questo. Per tutta la mia vita ho cercato di guardare al futuro, e di insegnarlo ai miei figli. Spesso si rovina il futuro per i troppi rimpianti del passato. Ma dopo essere andato in pensione e dopo la morte di mia madre, durante un viaggio a Roma, momento che coincide con l’inizio del libro, con mia nipote ho avuto modo di pensare. Ho compreso che noi libici abbiamo una storia non molto conosciuta, ci sono molti libri su questo tema ma i libri di storia ahimè vengono letti poco, così ho pensato che la nostra storia andasse raccontata. La letteratura è sempre stata la mia passione, ho scelto un’altra carriera perché sono sempre stato molto pratico e pensavo che mi la letteratura mi avrebbe portato solo ad insegnare, ora mi sono messo a scrivere. Il libro è uscito piano piano, partendo da Roma e raccontando il trauma del’ 67. Ognuno ha una storia, la mia ho pensato di raccontarla con un romanzo, chiaramente tutti gli eventi storici sono veri.

     

    Quanto è importante utilizzare la propria storia per raccontare la grande storia?

     

    Secondo me è indispensabile. Quando la storia la ascolti dagli altri è abbastanza simile, ma utilizzare la propria storia è importante per non dimenticare. Ci sono molte minoranze nel mondo, il mio libro non è rivolto solo ai tripolini o agli ebrei, anzi è destinato ad un pubblico diversificato. Del resto in Libia c’erano moltissimi italiani, questa è una storia che accomuna molti. Sentirsi vittime del passato non è una soluzione, ma neanche dimenticare lo è.

     

    Non è mai facile ricordare pagine dolorose della propria vita. Ha trovato difficile far affiorare i ricordi del passato per la stesura del romanzo?

     

    Molti degli eventi raccontano di ricordi e momenti tristi. Ma quel periodo per me era bello, dei primi amori, legato a ricordi quasi comici. La vita era piacevole, la società libica era estremamente cosmopolita. Vivere a lì era stimolante, vivere con ebrei, arabi, italiani, non ebrei, americani, inglesi, insomma un mondo molto vasto. Al liceo, ricordo avevamo in classe anche dei greci e dei maltesi quindi un’atmosfera molto variegata. Ricordo che arrivarono i film più o meno nello stesso periodo dell’Italia. Non era vivere in un ghetto, per quanto non fosse facile, specialmente negli ultimi anni, in cui le donne giovani venivano molestate e dovevano sempre essere accompagnate. Era una società interessante, c’erano feste tra compagni di liceo. Si trattava di una società tollerante dal punto di vista religioso, non tutti erano ortodossi spesso prevalentemente tradizionalisti.

     

    Alla luce del suo passato, come vede le nuove forme di antisemitismo a cui stiamo assistendo ultimamente?

     

    L’antisemitismo è una specie di malattia, ma non è monolitico; è un odio che si coniuga in varie forme, molto spesso confondendolo con l’antisionismo. Ci sono tante forme di antisemitismo, quello arabo per esempio, il loro è particolare perché la loro posizione interessa tutti coloro che non sono mussulmani. C’è anche l’antisemitismo cristiano, che è molto vario. Ad esempio, in America, ci sono tantissime correnti di oppositori come i cristiani fondamentalisti, che si nutrono spesso dalla mancanza di cultura. Oggi l’antisemitismo è un problema con molte facce, che bisogna combattere. Credo tuttavia che gli ebrei non possano farlo da soli, è un problema culturale. Viviamo in un mondo complicato, sotto ogni punto di vista, dalla guerra alla crisi climatica; la situazione che stiamo attraversando ultimamente non mi permette di essere ottimista.

     

    Colpisce una frase del libro: “…come un rifugio che consentiva di condurre la loro vita secondo la tradizione, come un piccolo mondo che forniva loro un certo grado di sicurezza: una patria in miniatura”. Lei che oggi vive in Israele, considera ancora la Libia la sua patria?

     

    No, come dicevo non vivo più nella nostalgia del passato. Per quanto il deserto con le dune mi piaceva molto, e il mare che c’era in Libia non l’ho visto in nessun’altra parte del mondo, somigliava quasi ad una piscina, non ho nostalgia. Non sono certo che avrei voglia oggi di visitarla, io mi sono staccato del tutto a differenza di altri. Ne conservo però un ricordo, che ho cercato, attraverso questo libro, di condividere con tutto il mio pubblico. Ebrei e non, tripolini e non. Il libro è stato precedentemente edito in Israele, e momentaneamente sta andando bene. Amos Oz  parlava della sua “piccola Gerusalemme” che nel tempo della narrazione diventava quasi il centro del mondo. Nel momento in cui uno scrittore scrive, lui stesso e il luogo di cui racconta è il centro del mondo, in qualunque posto, anche nel più piccolo. Non è importante che sia Roma, Tripoli o Israele, il messaggio, le conclusioni che si traggono, i passaggi che si vedono, sono universali. Anche per me è stato così, scrivere di una realtà piccola, a volte comica ma cosmopolita e ricca di contraddizioni, di cui in pochi avevano scritto prima, aveva diritto di essere raccontata.

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